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La prostituzione come lavoro

di Giulia Garofalo 

pubblicato in ingenere il 7 Maggio 2010

Proibizione o libertà? Un contributo al dibattito che parte del punto di vista delle persone che si prostituiscono e che fanno attività politico/sindacale. Cosa dicono, quali diritti rivendicano e come interrogano i pregiudizi e le abitudini

La questione della prostituzione e del lavoro sessuale provoca grandi passioni e conflitti in chi ha a cuore la giustizia sociale. Per chi non è disposto ad accettare semplificazioni del tipo “la prostituzione è violenza”, o “la prostituzione è un lavoro come un altro”, non è facile avere direzioni per orientarsi su cosa pensare e perché. Il campo della prostituzione è caratterizzato da una fortissima cristallizzazione di potere,  si pensi per esempio al fatto che, mentre qui si ragiona, chi vende sesso è per lo più esclusa-o da ogni dibattito sull’industria in cui, bene o male, lavora, e vive una vita da criminale o semi tale. In questa situazione, per produrre conoscenza che sia diversa dagli stereotipi in circolazione, chi studia i fenomeni sociali ed economici deve necessariamente procedere con cautela. Operazione questa un po’ noiosa per chi di noi è abituato ad occuparsi di policies, e sicuramente faticosa, perché, come dice Daniela Danna nel suo contributo a questo dibattito, i nostri “investimenti” (materiali in senso ampio) nella prostituzione sono spesso parecchio dolorosi, come donne, ma anche, per alcune-i, come persone “etnicizzate”, cioè subordinate lungo una linea di appartenenza etnica, razziale, nazionale o religiosa, o come persone queer (gay, lesbiche, bisessuali, transgender).

Dunque, al di là della scelta o non scelta, della violenza o non violenza individuali, delle condizioni di lavoro che, nonostante alcuni insistano a dire il contrario, possono cambiare (e devono essere cambiate!) di molto all’interno dell’industria del sesso (vedi, per esempio, Bernstein 2009), che cosa si può dire sul sesso commerciale che sia specifico eppure generalizzabile? Sulla base della ricerca di PhD che ho condotto fra il 2004 e il 2009 fra i movimenti di sex workers in Europa (1), si scopre che possono essere molto utili in questo senso le domande che si pone chi vende sesso ed è persona politicizzata:
In che cosa il lavoro sessuale differisce, è meglio o peggio, del lavoro che faccio in un supermercato, o in un ospedale? del lavoro domestico o di cura che faccio per la mia famiglia? del sesso che faccio con i miei amanti o con mio marito?
Perché le-i sex workers sono per lo più donne, o queers, o persone etnicizzate, che servono uomini o persone più “bianche” o più etero di loro, e perché, quando così non è, non sembrano essere stigmatizzate-i nello stesso modo?
Perché e quando alcune-i sex workers si dicono orgogliose-i di ciò che fanno?
Perché le-i sex workers sono così sistematicamente stigmatizzate-i nonostante siano fra loro così diverse-i, in particolare per classe socio-economica, luogo di lavoro, eccetera?
Le risposte esistenti all’interno dei gruppi autorganizzati di sex workers sono varie, e spesso restano mal articolate dal punto di vista teorico in mix fatti ad hoc e tendenzialmente piuttosto neo-liberali, anche perché i riferimenti teorici che vengono in aiuto scarseggiano.
La difficoltà di combinare a livello teorico sesso e lavoro rimane un grande ostacolo. Chi teorizza il sesso è per lo più incapace di trattare di lavoro, si pensi a Judith Butler o Michel Foucault, che per altro hanno sistematicamente ignorato il sesso commerciale, e viceversa chi teorizza il lavoro non sa come teorizzare il sesso, si pensi al soffocamento concettuale che provoca pensare al sesso come un bene – o male – di consumo, come spesso si fa in economia. Un’importante eccezione rappresenta il lavoro di Paola Tabet (1989, 2004), antropologa femminista materialista che per prima ha pienamente analizzato il sesso come uno dei lavori “delle donne”, insieme al lavoro domestico, riproduttivo, di sostegno psicologico, e così via. Questo non significa, è bene precisare, che il sesso possa, in certe circostanze da indagare, non essere lavoro, o che il lavoro non possa essere piacevole, o creativo, o resistente.
Detto questo, le domande poste dalle-dai sex workers attiviste-i sono a mio avviso un ottimo fondamento da cui ripartire per uscire dalla confusione che la prostituzione provoca, ed elaborare politiche di largo respiro. Il fatto fondamentale, ci dicono le-gli attiviste-i, è che al lavoro sessuale è associato uno stigma particolare: isolamento, violenza, vergogna, perdita del permesso di soggiorno per chi ne ha bisogno, impossibilità di farsi una famiglia, di avere il sostegno delle autorità, di avere una voce pubblica, di avere pensione o assicurazioni sanitarie, sono esperienze fin troppo frequenti per le-i sex workers.
Il punto è: come analizzare questa situazione? Come modificarla? Chi ne trae vantaggio? Quello che le-gli attiviste-i ci dicono è che lo stigma in realtà è legato proprio al potenziale di resistenza che esiste(rebbe) nelle pratiche di prostituzione (se non fossero stigmatizzate) rispetto ai conflitti sociali che si giocano intorno al lavoro contenuto nel sesso (sex labour). Infatti, alcune-i dicono, il lavoro sessuale (sex work), potenzialmente, può permettere alle “classi” che lo praticano, cioè donne, queers, persone etnicizzate, di aumentare la propria autonomia, economica, ma anche di movimento, di vita, rispetto alle ‘classi’ a cui sono subordinate, cioè gli uomini e le persone più bianche e/o più etero (i “normaliâ€). Chiarificanti possono essere in questo senso queste citazioni di due attiviste-i:

Ovunque andavo, ho sempre avuto la netta sensazione che ciò che i maschi volevano in ogni caso era scoparti, quindi ho pensato perché non farsi pagare invece che sentirsi molestata?

(Teresa, comunicazione personale, Londra, 2007)

Come ragazzo marocchino arrivato in Francia, sarei dovuto diventare un delinquente di strada. Lavorando come prostituto almeno evito di distruggermi, e in più faccio i soldi sugli uomini francesi che si fanno i viaggi ch’io sia davvero un gangster!

(Adam, comunicazione personale, Bruxelles, 2005, trad. mia ). Da altre-i attiviste-i, poi, il sesso commerciale è visto come una pratica che, potenzialmente, può essere socialmente creativa e perciò, ancora una volta, viene particolarmente stigmatizzata. Rispetto ad altri incontri con persone “normali”, specialmente nel sesso non pagato, essa può diventare uno spazio di incontri diversi e interessanti. Forti in questo senso sono le parole della famosa poetessa e prostituta svizzera Grisélidis Réal:La Prostituzione è un’ Arte, un Umanesimo e una Scienza. (…) Il corpo umano abitato dall’anima è uno strumento musicale, la sessualità il suo archetto. Con delicatezza e violenza, vibra, e raggiunge picchi di voluttà ed estasi. La sola Prostituzione autentica è quella delle grandi artiste tecniche e perfezioniste che praticano quest’artigianato particolare con intelligenza, rispetto, immaginazione, cuore, esperienza e volontariamente, per una sorta di vocazione innata: vere professioniste, coscienti del loro potere e dei loro limiti, che sanno mettersi nella pelle dell’altro, scoprire che cosa si aspetta, la sua angoscia, il suo desiderio, e come liberarlo da questi, senza provocare danno né per loro stesse, né per lui.
(Réal, 2005b, 8, trad. mia )

Questi messaggi che le-gli attiviste-i ci mandano, è chiaro, assumono il proprio senso data la realtà di subordinazione e dipendenza delle donne, e più in generale degli “anormali”, e dato il carico di responsabilità sproporzionato che queste-i portano non solo nella sfera del sesso ma anche più in generale nella sfera interattiva che è così importante nella costituzione dell’identità, sia essa stigmatizzata o normale. Cosa fondamentale, le-gli attiviste-i entrano nel merito di come promuovere le pratiche di resistenza che effettivamente, e nonostante il forte stigma, esistono nell’industria del sesso: per esempio ci parlano dell’importanza di poter dire no a (exit) qualunque pratica sessuale, a qualunque cliente, e di poter stabilire le “regole del gioco”. E chiedono che si pensi ad interventi legislativi, culturali, politici, che rafforzino il potere relativo di chi lavora: la sicurezza, il controllo, la salute, la pensione, la mobilità, la creatività, invece di ridurlo come si fa con tutte le forme di criminalizzazione, sia essa delle-i migranti, dei clienti, o dell’industria tutta (vedi il “Manifesto delle-i sex workers in Europa”(2) e la “Dichiarazione dei diritti delle-dei sex workers in Europa” ). Infine ci impongono di chiederci chi, anche fra le donne, tragga vantaggio, e che vantaggio miope sia, dal fatto che le-i sex workers vedano diminuire il proprio potere relativo.

Note

(1) ‘The Political Economy of Sex Work in Europe’, University of East London, School of Social Sciences (Novembre 2009). La ricerca si è basata, tra l’altro, su anni di osservazione partecipante come attivista dell’International Union of Sex Workers, di x:talk  (2004-2008), dell’International Committee on the Rights of Sex Workers in Europe  (2003-2007), di cui facevano e fanno parte, in Italia, anche il Comitato per i diritti civili delle prostitute   e il MIT (Movimento Identità Transessuale)

(2)  Scritti in inglese, e tradotti in molte lingue, si trovano su www.sexworkeurope.org.

Bibliografia

Bernstein, Elizabeth: 2009, ‘Temporaneamente tua. Intimità, autencità e commercio del sesso‘ Odoya, Bologna

Pheterson, Gail (ed.): 1989, ‘A Vindication of the Rights of Whores: The International Movements for Prostitutes’ Rights, Seal, Seattle
1996, ‘The Prostitution Prism‘, Amsterdam University Press, Amsterdam

Réal, Grisélidis: 2005, ‘Carnet de bal d’une courtisane‘, Editions Verticales/Le Seuil, Paris

Tabet, Paola: 1989, ‘I denti della prostituta. Scambio, negoziazione, scelta nei rapporti sessuo-economici’, in DWF, n.10/11
2004, ‘La Grande Beffa. Sessualità delle donne e scambio sessuo-economico’, Rubbettino, Soveria Mannelli

Il dibattito su inGenere.it:

Daniela Danna “Il tappeto svedese sulla prostituzione”

Chiara Valentini “Punire il cliente. La strada svedese”

Maria Rosa Cutrufelli “Com’è cambiato il mercato delle donne”

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