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La sovversione del nome

di Egon Botteghi su antispecismo.net, 22 Aprile 2014

Nel libro della Genesi si racconta di come un dio “plasmò dal suolo ogni sorta di bestia selvatica e tutte gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo [inteso proprio come maschio, perchè la donna verrĂ  creata tre versetti piĂą avanti] per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome. Così l’uomo impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche...” (Genesi, 19-20).

Se non fosse che questo dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, che lo crea maschio e femmina e che lo pone a dominare “sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (idem), potrebbe essere un simpatico mito sulla nascita del linguaggio umano, anche se mi domando come mai, all’inizio del mondo, prima ancora dei nomi, questo dio desse giĂ  la distinzione tra animali domestici e selvatici.

Purtroppo invece la questione della nominazione umana si fonde subito con quella della dominazione della nostra specie sulle altre (ed anche intraspecifica, perchĂ© anche la donna viene condotta all’uomo, come prima di lei gli animali).

D’altra parte questo potrebbe essere anche un bisogno coevo all’essere umano, quello di prendere, di  afferrare e portare a sĂ© (siamo raccoglitori): con le nostri mani prensili subiamo il fascino del manipolare, con il nostro linguaggio cerchiamo di afferrare e dominare il mondo.

Alcune scimmie hanno la coda prensile e si attaccano agli alberi, altre scimmie hanno il linguaggio prensile e si attaccano alle parole.

I nomi potrebbero essere una sorta di pollice opponibile, che esercita una stretta da cui è difficile divincolarsi.

“Nomina sunt omina”, i nomi sono destini, dicevano i latini, a cui dobbiamo tanta parte della nostra tradizione patriarcale.

Nel nostro diritto, il nome che sta ad identificare una persona, è formato da un prenome (o, ancor peggio, nome di battesimo) e dal cognome, detto anche nome patronimico, perchè è il Nome del Padre (chissà se prima o poi riusciremo ad avere anche noi una legge paritaria tra uomini e donne per il cognome dei figli).

L’articolo sei del Codice Civile (Libro primo, “delle persone e della Famiglia”, Titolo primo, “delle persone fisiche”) recita: “ogni persona ha diritto al nome che le è attribuito per legge. Nel nome si comprendono il prenome e il cognome. Non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche, se non nei casi e con le formalitĂ  dalla legge indicati”.

Il nome quindi è un diritto-dovere, una cosa che ti viene concesso e da cui non puoi liberarti mai più, a meno di non essere una persona a “statuto speciale” come me.

Io, infatti, come persona transessuale posso chiedere, con i modi previsti dalla legge, la rettifica del nome anagrafico, perchĂ© nel mio caso, la nominazione ha fallito quella presunta presa sulla realtĂ , c’è stato uno scivolamento nel non previsto e si è dovuto correre ai ripari.

Questo riparo è la legge 164, del 1982, ottenuta con grandi lotte da parte delle transessuali del tempo.

Però questa rettifica io la pagherò cara, in tutti i sensi.

Mi presenterò, con il mio avvocato, davanti ad un giudice del tribunale della mia cittĂ , il quale interpreterĂ  la norma a disposizione come avviene ormai da trent’anni nella stragrande maggioranza dei casi, accertandosi cioè della mia avvenuta sterilizzazione. Le mie ovaie in cambio di un nome che mi rappresenti.

Ed io sono anche “fortunato”: il mio avvocato è prima di tutto un amico dai tempi del liceo, che mi ha accompagnato e sostenuto; per reddito ho avuto accesso al gratuito patrocinio ed, essendo la falloplastica un’ operazione dagli esiti troppo incerti, il giudice si acconteterĂ  che io lasci solo le gonadi sul tavolo operatorio (anche se ci sono alcuni giudici in Italia che continuano a pretendere la falloplastica per dare la rettifica anagrafica, il che è un assurdo, dal momento che la falloplastica è un’operazione ancora sperimentale). Se fossi una mtf dovrei invece sottopormi alla vaginoplastica che, al contrario di quello che si può pensare, continua ad essere un’ operazione che va incontro a molte problematiche (necrosi del clitoride, stenosi, o peggio, coartazione della vagina). [1]

Per questo è importantissimo che qualcosa si stia muovendo, che ci sia un disegno di legge, il 405, che aspetta di essere calendarizzato e discusso, che trasformerebbe questa rinominazione per le persone transessuali in un procedimento amministrativo, senza più dovere ricorrere a giudizi, sentenze, operazioni e mutilazioni. Per questo sarebbe importante sostenere la petizione che chiede la calendarizzazione di questa proposta di legge.

Il nome è una gabbia così legata al dominio che l’idea stessa di poterlo cambiare, di poterne uscire, crea una vertigine, una scossa elettrica, un volo nella libertĂ  inaspettata.

A volte, quando penso che mi accingo a cambiare il nome che i miei genitori mi hanno imposto, il cuore balza alla gola, sento come se il terreno si negasse ai miei piedi, c’è qualcosa che sembrava incredibile che sta invece avvenendo. Sembra la sovversione di tutte le cose, l’impossibile che si fa possibile.

La mia realtĂ  si decompone e si ricompone, altrove. E’ come un salto quantico.

Eppure ho realizzato di non essere la sola persona in famiglia che ha avuto dei cambi di nome, ed il pensiero mi sorprende per la similitudine e per la diversitĂ  delle situazioni coinvolte.

Ho sempre conosciuto mia nonna materna come “nonna Olga”. Ho scoperto quando lei era già anziana che in realtà si chiamava Angela.

Suo padre, il mio bisnonno, era un comunista convinto, di quelli che non prese mai la tessera del partito fascista, nonostante l’olio di ricino.

Quando nacquero le sue due figlie, intorno agli anni venti del secolo scorso, lui le volle chiamare Olga ed Irene.

Essendo due nomi russi era allora vietato dalla legge, cosicchè mia nonna visse come Olga per tutt* tranne che per lo stato italiano, dove era Angela.

Sua figlia, e mia madre, ha una vicenda contraria.

Tutt*, me compreso, credevamo si chiamasse Lyda.

Figurarsi la sorpresa quando rivelò, io ero giĂ  adulto, che il suo vero nome, quello con cui l’avevano “battezzata” era Anna Carla.

Non so per quale vicenda del destino, mi sembra che questa Lyda fosse una persona che venne a mancare, la cominciarono a chiamare così da bambina, finchè lei non volle riappropriarsi del suo nome anagrafico, in un tentativo di riappropriarsi di sé stessa e delle sua vita.

Quanta gente ancora mi chiede: “Ma prima come ti chiamavi?”

No, non è una domanda appropriata da rivolgere ad una persona transessuale: non c’è un prima ed un dopo, c’è la persona che ti sta ora di fronte e che ti ha giĂ  detto come si chiama.

Il nome non racchiude nessuna essenza intima della persona, come sapeva bene anche Giulietta, non c’è bisogno che si sappia.

La libertà di scegliersi il nome è però grande. Ci si può decidere, ci si può autonominare.

Ripenso a quell’intenso personaggio che è Europa, nel film “Mater Natura”, quella che, quando racconta che le hanno staccato la luce, dice “E fa niente, Ch’ammo a fa? Noi esistevamo prima della corrente elettrica e indipendentemente dalla corrente elettrica continueremo ad esistere ancora” (Mater Natura, di Massimo Andrei, 2005).

Nel suo asilo improvvisato, nei quartieri spagnoli di Napoli, questa persona gender non conforming, lascia che i bambini scelgano come farsi chiamare, scelta che viene rispettata da tutta la piccola comunitĂ , aprendo uno sconfinato spazio di libertĂ  e di autodeterminazione in mezzo ad uno squallore quotidiano.

Vorrei che questa libertà fosse lasciata anche agli animali altro da umani, che hanno il diritto di non essere chiamati in nessun modo, perché non è con i nostri nomi che vengono alla realtà.

[1] Per approfondire questo punto vedi anche “Il corpo è mio e me lo gestisco io: quanto noi transessuali sappiamo sulle operazioni di riassegnazione del sesso?” e “La (brutta) storia di Elena“.

About The Author

Egon Botteghi

Attivista antispecista e per i diritti GLBTIQ. Fondatore della Fattoria per la Pace Ippoasi (2008-2012). Laureato in filosofia, fa parte del collettivo anarcoqueer femminista antispecista Anguane e della redazione di antispecismo.net; cofondatore di intersexioni, è referente toscano di Rete Genitori Rainbow e referente nazionale per la genitorialità trans. Ha ideato il primo convegno nazionale “Liberazione GENERale. Tavola rotonda sulle correlazioni tra antispecismo, antisessismo, intersessualità e omotransfobia” (Osteria Nuova, Firenze, 2013) volto a mettere in evidenza le interconnessioni tra antispecismo e lotta per le minoranze (per sesso/genere, etnia, identità di genere, orientamenti sessuali).

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