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Note per un’archeologia delle pratiche Drag King

Note per un’archeologia delle pratiche Drag King

di Luca Greco*

Università di Paris III – Sorbonne Nouvelle

When I perform Mo B. Dick on-stage, I have to be very conscious of my movements. Usually I move around a lot, but as a man I am much more rigid, and I hold my body a certain way, and it’s much stiffer in the torso, and there’s no wiggle in the hips…whereas the drag queen expands and becomes flamboyant, the drag king constrains and becomes quietly macho. If the drag queen gesticulates, the drag king learns to convey volumes in a shrug or a raised eyebrow“.  Intervista con Mo B. Dick a cura di Del Lagrace e Halberstam (1999:259)

Definizione

I Drag Kings (DK da ora in poi) possono definirsi come persone classificate sin dalla nascita come “donne” (ma anche “uomini” secondo i contesti geografici e culturali) che mettono in scena nel corso di laboratori e di performances le maschilità grazie ad un repertorio multisemiotico complesso: abiti, oggetti, gesti, sguardi, posture, parola.

Tali pratiche possono adempiere almeno tre obiettivi: una ricerca e un desiderio personali, un impegno ed un’ambizione artistici, e lo spostamento, l’interrogazione e la risignificazione delle frontiere di genere.

Storia e cultura drag king

La storia e la cultura delle pratiche DK si intrecciano in modo costante ed altrettanto problematico con la tradizione del travestitismo, della performance, della cultura butch/femme 2 e di ciò che Judith Jack Halberstam ha chiamato la «female masculinity» 3 (1998).

Da un punto di vista storico, è possibile immaginare una sorta di genealogia della cultura DK in alcune pratiche di travestitismo documentate sin dalla fine del XIX secolo in contesto artistico (male impersonators4), ma anche nel modo in cui le donne hanno sovvertito i codici di genere nelle pratiche di travestimento in ambito quotidiano.

Nella vita di tutti i giorni si possono citare numerosi casi di persone assegnate alla categoria “donna” sin dalla nascita e che hanno vissuto facendosi riconoscere come uomini alla ricerca di spiritualità, di ascensione economica e sociale o di un destino avventuroso combattendo in guerra o avendo prestato servizio come pirati, marinai, militari, politici…5

In campo artistico, e in modo più specifico nel mondo del cabaret o del teatro, si possono ricordare personaggi celebri come Vesta Tilley (1864-1952) e Ella Shieds (1879-1952) che hanno calcato i palcoscenici inglesi e statunitensi durante tutta la loro carriera presentandosi vestite con abiti detti “da uomo”, oppure Gladys Bentley (1907-1960), africana-americana e lesbica, conosciuta per le sue canzoni dai testi particolarmente piccanti e ironici che infiammarono i teatri di Harlem durante gli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. Un’altra figura certamente leggendaria è quella di Stormé De Larverie (1920-) mattatore e cantante della compagnia americana «Jewel Box Revue» composta da «24 artisti uomini» (female impersonators) e da «una sola artista donna », come amavano ripetere le locandine dell’epoca («Jewel Box Revue composta da 24 uomini e una donna»). Se è possibile provare ad intravedere in Stormé De Larverie una sorta di DK ante litteram, è sicuramente innegabile il ruolo di primo piano esercitato da quest’ultimo durante le rivolte di Stonewall tanto da ottenere il titolo di “King Imperial” della Società dei Veterani di Stonewall.

È a partire dagli anni ’70 e ’80, sicuramente sull’onda del femminismo e dei movimenti di liberazione razziale, sessuale e di genere, che si comincia a pensare a performances che si allontanano poco a poco dalla figura del male impersonator e che acquisiscono le caratteristiche del drag grazie alla forza ironica e politica che riescono a trasmettere. A tale proposito, è opportuno citare almeno due esempi. Il primo proviene dalla testimonianza dell’antropologa femminista statunitense, Esther Newton, che dice avere assistito negli anni ’70 ad uno spettacolo di drag butch in un bar di Chicago (Newton 1972:5). Il secondo risale agli anni ’80 ed ha luogo nel leggendario locale di New York, il WOW Café Theater, nell’East Village, che accoglie da ormai trent’anni gli spettacoli di artiste lesbiche e transgender, e nel quale numerosi DK si sono formati come performers. In questo locale si esibiscono due artisti importanti che insieme ai DK mettono in scena i rapporti di genere e la denuncia del patriarcato. Si tratta del gruppo Split Britches e dell’artista di origine cubana Carmelita Tropicana (alias Pingalito Betancourt).

Bisognerà ancora attendere la seconda metà degli anni ’80 affinché le prime performances DK in quanto tali possano avere luogo. A tale proposito, Judith Jack Halberstam e Del Lagrace Volcano ammettono di aver assistito al primo spettacolo DK a San Francisco nel 1985. Un DK tra i più famosi, milDRED (in origine Dred) che abita e si esibisce a New York, mi ha confidato di aver visto il primo spettacolo DK in un bar, l’“Henrietta Hudson”, a Manhattan nel dicembre del 1995 e di aver udito la parola “drag king”, per la prima volta nel 1993-1994 in opposizione al termine “drag queen”.

È esattamente alla fine degli anni ’80 e agli inizi degli anni ’90 in concomitanza con la nascita dei queer studies che le performances e i laboratori DK (Drag King Workshops) vedono la luce a New York (Club Casanova), a Londra (Club Geezer) e a San Francisco (Baybrick Inn, Club Confidential…) grazie all’impegno di alcun* pionier* come Leigh Crow (alias Elwys Herselvis), Mo B. Dick, Shelley Mars (alias Manolo), Murray Hill, Dred e soprattutto Diane Torr i cui laboratori hanno ispirato legioni di DK in tutto il mondo. Diane Torr, uno dei massimi riferimenti all’interno della comunità, fa risalire l’origine del termine “drag king” a Johnny Science (conosciuto anche come John Grant, John Armstrong, 1955-2007), trans FtoM, truccatore, musicista organizzatore insieme a Diane Torr, dei Drag king Workshops: King-for-ad-Day (Torr& Bottoms 2010:26). Ed è ancora grazie a Johnny Science se nel 1992 si terrà a New York il primo ballo DK6, e se nel 1995 nascerà il primo concorso DK all’interno del Festival Internazionale del Cinema Gay e Lesbico a Londra.

È interessante notare come in modo quasi parallelo la cultura del travestimento “maschile”, dei male impersonators e dei DK comincino ad aprire un varco nell’immaginario collettivo con quattro eventi che mi sembra doveroso ricordare: l’uscita dei film Victor/Victoria (1982) e Yentl (1983) nei quali Julie Andrews e Barbara Streisand interpretano due donne che incarnano dei ruoli maschili per ovvi motivi di ascesa sociale; Annie Lennox (all’epoca Eurythmics) incarnando il personaggio DK per eccellenza nella cultura statunitense, Elvis Presley, in occasione dei Grammy Arwards; la copertina di Vanity Fair del 1993 con la cantante KD Lang in abiti maschili che si fa radere dalla top model Cindy Crawford, ed infine l’esibizione Lady Gaga in Joe Calderone in occasione degli MTV Awards.

 

I Drag King Workshops

In Europa, e in particolar modo, in Francia e in Belgio, è grazie ai laboratori di Béatriz Préciado e di Marie-Hélène Bourcier a Parigi e a quelli di Max Nisol a Bruxelles, che la cultura DK trova un terreno ricettivo nel primo decennio del 2000. Béatriz Préciado organizza i primi ateliers a Parigi nel 2002, ma è a Bruxelles che si svolgeranno le prime performances durante il festival del cinema “Pink Screen” nel 2001. Si dovrà attendere il settembre 2006 affinché nascano gli ateliers DKB a Bruxelles, organizzati periodicamente una volta al mese, e aperti a tutt*. All’interno di questi spazi, gruppi di performers femminist* come Max, Chris, Jimmy e Aurel, si esibiscono sul palcoscenico.

Negli ultimi anni si sono formati molti gruppi a Parigi (Louis de Ville e Viktor Marzuk) e a Bordeaux (Rachele Borghi e Arnaud Alessandrin) nonché un po’ ovunque in Europa: a Barcellona e a Madrid, in Italia con il gruppo Eyes Wild Drag che organizza eventi molto mediatizzati, a Amsterdam dove l’«Amsterdam Drag Queer» va in scena regolarmente all’interno dello spazio Vrankrijk e in Germania grazie al «Kingdom of Cologne» e al gruppo TKK7 7.

Se i DK intrattengono forti legami con la galassia LGBTQI grazie anche alla condivisione di spazi, percorsi, affetti e scelte politiche comuni. Sarebbe altresì errato e fuorviante ridurre i DK esclusivamente ad una sottocultura lesbica o butch per almeno due motivi. Il primo è che durante gli ateliers si possono incontrare persone che si presentano e si identificano con categorie estremamente diverse tra di loro: donne etero, lesbiche, trans FtoM, MtoF, M/FtoUnknown, dei ragazzi biologici cisgenere, travestiti, gay, etc. Il secondo è che una buona parte dei King da me incontrata rifiuta di essere assimilata e imprigionata all’interno di una sola identità, essendo queste categorie vissute come degli strumenti di oppressione e di discriminazione8.

Al di là della diversità e pluralità categoriale, ciò che accomuna queste persone è il desiderio di esperire un altro o altri generi possibili nonché una certa consapevolezza delle sfide che tale percorso può offrire.

I Drag King Workshop sono laboratori nei quali la costruzione di un personaggio maschile e la “scoperta del proprio king” avvengono attraverso complesse dinamiche interazionali di collaborazione e di socializzazione. I personaggi scelti da* partecipant* possono variare secondo il desiderio di ciascun*: un camionista rugoso, uno scultore alternativo degli anni ’70, un personaggio di Pulp Fiction, un anziano, uno skater androgino, un soldato reduce della guerra del ’15-’18, un rasta, un clown, un agente di sicurezza… Si tratta di occasioni nelle quali, grazie all’aiuto di un* o più espert*, si sperimentano delle trasformazioni corporee genderizzate e si apprende un repertorio di tecniche Kinging: schiacciare i seni con il binding, farsi un pene riempiendo un preservativo col cotone o col gel (farsi il packing), farsi una barba o dei baffi incollandosi sul viso dei ciuffi di capelli precedentemente tagliati in un bicchiere di plastica o applicando il mascara a ritroso su alcune zone del viso, scurire la zona degli occhi, scegliere abiti e capigliatura in funzione del personaggio prescelto, sperimentare su sé stess* e sulle/gli altr* una serie di tecniche visive (sguardi), posturali (movimenti), gestuali, prosòdiche (timbro vocale, intonazione) e verbali.

Gli ateliers sono composti da un numero di attività che può evidentemente variare nel numero e nell’ordine: una presentazione dei princìpi e degli obiettivi del laboratorio, un momento nel quale successivamente ciascun* presenta la propria storia, la parte del trucco, che comporta una serie di interventi tesi ad operare trasformazioni sul proprio corpo, e infine la possibilità di sperimentare la “nuova” identità in spazi pubblici come la strada o un bar. Alcuni gruppi approfittano della fase post-trucco per organizzare giochi di ruolo durante i quali vengono testate la propria maschilità e il modo in cui le persone possono reagire a delle situazioni create ad hoc: sedersi nella metro occupando tutto lo spazio disponibile, guardare qualcun* fisso negli occhi, assumere atteggiamenti di seduzione, etc.. In questo modo, i laboratori permettono lo sviluppo di una presa di coscienza rispetto all’eteronormatività che traversa e definisce lo spazio pubblico (il modo di occuparlo, le divisioni che lo strutturano). In questo senso, i laboratori DK possono essere considerati come vere e proprie performances in quanto rivelano alle/i partecipant* una vera e propria coscienza della subordinazione di genere, di classe, e di razza ma anche il desiderio di esplorare nuovi sentieri identitari tanto da decidere di prolungare l’esperienza nella vita di tutti i giorni. L’atelier può infine chiudersi attraverso una discussione collettiva nella quale ognun* opera un ritorno sulla propria esperienza e la condivide con il resto del gruppo. E’ importante precisare che la questione delle frontiere tra “quotidiano” e “laboratorio” e’ estremamente labile e che le trasformazioni che abbiamo operato sui nostri corpi possono accompagnarci per un tempo piu’ o meno lungo e arricchire in modo inedito le nostre percezioni, i nostri affetti, le nostre interazioni.

 

 

Le pratiche DK come performances : verso un post king ?

 

 

Se da un certo punto di vista, è lecito pensare a possibili (ancorché problematici) legami di parentela tra le pratiche DK e quelle dei male impersonators, l’obiettivo degli ateliers e delle performances non è di avvicinarsi ad una supposta verità del genere maschile, ma di destabilizzare le categorie di genere e la dimensione sessuata del corpo. Difatti, il corpo king non corrisponde a nessuna verità sessuata del tipo “un uomo possiede un corpo da uomo, con un pene, dei testicoli, dei peli e capelli corti”. In quest’ottica il corpo king non riproduce un modello normativo, o vericondizionale, della “maschilità” come nel caso di alcuni male impersonators o trasformisti. I DK raggiungono, ricreano e destabilizzano le maschilità mostrando contemporaneamente la dimensione performativa del corpo attraverso diversi procedimenti: l’understatement, l’iperbole, l’ironia, il camp9 e il far emergere all’interno della stessa performance diversi personaggi, ma anche diversi generi. In questo modo ciò che viene messo in scena non sono più tanto le maschilità, ma l’incontro e il sovrapporsi con le femminilità o con qualcosa di inedito, dando luogo a figure ibride e polifoniche dove l’identificazione stessa dei performers in quanto “donne che mettono in scena le maschilità” è messa a dura prova così come la linearità e la staticità temporale e categoriale che è implicita in una visione tradizionale dei processi di trasformazione del genere. Ed è forse proprio in queste occasioni offerte dagli ateliers e dalle performances che è possibile intravedere un’ulteriore fase nella cultura DK che potrebbe far saltare definitivamente il concetto stesso di rappresentazione e di soggettività. In quest’ottica le «maschere» non sostituiscono e non nascondono necessariamente una presunta verità del sesso. Esse, al contrario, svelano altre maschere in un gioco infinito di sovrapposizioni dove le verità identitarie, di genere, di sesso e di sessualità cedono il posto ad una fase post-identitaria e post-drag king nella quale l’intelligibilità genderizzata dei nostri corpi è messa a rischio e le nostre identità sono definitivamente schiacciate dal peso delle performances e delle maschere riciclate, distribuite, inventate e facenti parte ormai dei nostri organi e dei nostri tessuti più profondi.

* Luca Greco, titolare di un dottorato di ricerca in scienze del linguaggio all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS) di Parigi, è professor* associat* di sociolinguistica all’Universita’ di Paris III Sorbonne Nouvelle. Ha condotto due soggiorni di ricerca alla New York University (NYU) e all’University of California, Los Angeles (UCLA) collaborando con antropolog* e linguist*. Dal 2002 si occupa di pratiche di categorizzazione e linguaggio all’interno delle comunità LGBTQI… declinando gli approcci dell’antropologia linguistica, dei Queer Studies e della Critical Theory. In questi ultimi anni si è occupat* di pratiche di nominazione parentale nelle coppie gay e lesbiche e dei processi di costruzione multisemiotica, ideologica e collettiva del sé nelle pratiche drag king. Le sue ricerche contribuiscono all’emergenza di due nuovi campi di indagine: la linguistica queer e le ricerche linguistiche sul genere nonché allo sviluppo di un approccio critico allo studio interazionale delle pratiche di categorizzazione.

Homepage dell’associazione «Genres, langages et sexualité» (GSL)  

Qui è possibile scaricare alcune delle pubblicazioni di Luca Greco

Qualche riferimento bibliografico

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Musica

Bitch – Drag King Bar : http://www.youtube.com/watch?v=1eAGalLSxJA

KD Lang – Drag (1997)

Letteratura

Leslie Feinberg – Drag King Dreams (2006)

Gruppi e Workshops (la lista e’ chiaramente aperta)

International Drag King Extravaganza Community : https://www.facebook.com/IDKECommunity

Kings of Rome : http://eyeswilddrag.blogspot.fr/

Ateliers des Drag Kings de Bruxelles : http://www.genrespluriels.be/-DKB-Les-Drag-Kings-de-Bruxelles-.html

Groupe et soirées «garçonnes» à Paris coordonnés et organisées par Camille et Louis(e) de Ville : http://louisedeville.com/

Kingdom of Cologne : http://www.kingdom-of-cologne.de/koc.html

Drag queer of Amsterdam : http://vrankrijk.org/events/queer-theater-festival-amserdam-drag-queers-play-up-youre-ass/

Interviste

Diane Torr : http://www.brooklynrail.org/2004/09/theater/diane-torr-with-sonya-sobieski

Mo B. Dick : http://mepowermag.com/drag-next-door/

(Mil)Dred : http://www.youtube.com/watch?v=41v0U4J7vVg

Murray Hill : http://en.wikinews.org/wiki/Murray_Hill_on_the_life_and_versatility_of_a_New_York_drag_king

1 Colgo l’occasione per ringraziare in modo particolarmente affettuoso Egon Botteghi per avermi offerto uno spazio all’interno di quell’officina di pensieri, progetti e storie possibili che è intersexioni. Vorrei ringraziare altresi Arnaud Alessandrin et Jérémy Patinier per avermi dato la possibilità di tradurre e ripubblicare in una veste abbastanza diversa, un testo che era apparso originariamente in francese per la rivista Miroir/miroirs, Revue des corps contemporains. N°2 «Gender Fucking. Masculinités/Féminité et tout le reste?». Ed infine, estrema riconoscenza a Federica Quirici per aver dato vita a quelle pratiche transidiomatiche che sono le traduzioni e a Sara Garbagnoli per aver fornito generosi commenti ad una prima versione del testo. Vorrei ringraziare inoltre Gianfranco Rebucini per avermi aiutato a trovare una soluzione a qualche problema terminologico.

2 Butch / Femme sono due dispositivi categoriali, morali ed estetici che designano posizionamenti di genere (« butch » rinvia alla maschilita’ e « femme » alla femminilita’) all’interno delle culture lesbiche, transgender e drag. Tali categorie hanno subito nel corso degli anni critiche feroci (in quanto strumenti di riproduzione del patriarcato e degli stereotipi di genere) e riletture interessanti alla luce del concetto di performance. Per una visione storico-antropologica, si potra’ consultare l’importante saggio di Lapovski Kennedy e Davis (1993) sulle comunità butch/femme nella Buffalo degli anni ’40 e ’50.

3La “female masculinity” è una forma di maschilità messa in scena, vissuta e praticata giorno dopo giorno da persone classificate “donne” alla nascita. Essa copre un vasto raggio di categorie e di pratiche incarnate di messa in scena delle maschilità. Tra i numerosi esempi che possono essere citati: coloro che hanno vissuto come “uomini” per una parte o in determinate occasioni della loro vita: le lesbiche butch, i trans FtoM, i drag kings, ma anche le sportive dal fisico percepito come maschile, le cosiddette garçons manqués…. Queste categorie (e le pratiche che le accompagnano e che le costituiscono) sono storicamente situate e rivestono un alto potenziale politico (indipendentemente dal grado di rivendicazione espressa dal soggetto in questione) per il potere che esse hanno di interrogare in modo radicale la supposta dimensione naturale del genere. Per un’esplorazione critica della categoria “female masculinity”, dei suoi rapporti con la cultura popolare e delle sue icone (Marlène Dietrich, Greta Garbo, Sigourney Weaver, KD Lang), rimando a Noble (2004) e a Bourcier e Molinier (2008).

4Male impersonators è una categoria che designa una persona classificata “donna” alla nascita che decide all’interno di una cornice artistica di vestirsi e di truccarsi come un “uomo” raggiungendo un alto livello di somiglianza. Tale categoria può essere apparentata a quella più conosciuta di “trasformista”. Il termine di “breeches roles” designa a teatro dei ruoli maschili interpretati da donne. Breeches sono pantaloni molto stretti (tipo fuseaux) che vengono indossati anche per andare a cavallo e che sono simili a delle calzemaglie. Uno degli esempi più conosciuti è quello di Sarah Bernardt (1844-1923).

5 Qualche esempio può essere identificato nel recente film di Albert Nobbs de Garcia (2011) il cui ruolo principale è interpretato da Glenn Close, ma anche nei numerosi casi documentati attraverso i secoli dalle ricerche di Steinberg (2001), Bullough e Bullough (1993) e Krimmer (1967).

6 Sarebbe interessante domandarsi in quale misura tali eventi presentino delle “somiglianze di famiglia”, dei nessi storici possibili con la cultura dei balli che è stata documentata dall’importante saggio di Chauncey (1994) e dal film “Paris is burning” (Livingston 1990) per quanto riguarda la Harlem degli anni ‘80.

7 Ringrazio Robin Van Royen e Vreer Sirenu per le preziose informazioni a tale proposito.

8 Sulle tensioni tra femminismo, lesbismo e queer ci si potrà riferire ai testi di Binard (2006) e di Bourcier (1999).

9 Per “camp” si intende un insieme complesso di pratiche discorsive – linguistiche, gestuali, posturali, vocali, materiali (trucco, vestiti etc), spaziali (un certo modo di occupare lo spazio e di arrivare in un luogo creando sconforto, sorpresa ed ammirazione…) – estremamente ritualizzate che contribuiscono a sovvertire e a denaturalizzare l’ordine sociale e a rivelarne il carattere artificiale, genderizzato, classista e razziale. Possono definirsi “camp” le azioni pubbliche di alcuni gruppi radicali come il FUORI (in Italia) o le Gazolines (in Francia) o del gruppo teatrale delle Cockettes (negli Stati Uniti) negli anni ’70.

È necessario precisare che un’interpretazione delle pratiche DK in quanto camp non è evidente come lo ha mostrato Halberstam (1999), restituendo un dibattito molto importante nel quale si sono confrontate due posizioni. La prima sostiene che l’estetica butch non può essere interpretata secondo la chiave del “camp” (Lapovski Kennedy & Davis 1993) che richiede come avviene nella tradizione gay e drag una componente ludica e ironica. La seconda tenta di sottolineare il potenziale performativo dei ruoli “butch/fem” (Case 1998). Per una visione camp del teatro performativo lesbico, si rinvia a Lemoine (2008).

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