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L’identità alias come strumento di tutela della privacy e dell’incolumità delle persone trans nella gestione dei dati anagrafici

L’identità alias come strumento di tutela della privacy e dell’incolumità delle persone trans nella gestione dei dati anagrafici

di Daria Campriani

 

Le persone trans che vogliono affrontare un percorso di affermazione di genere devono sottostare a prove e superare molti ostacoli prima di veder riconosciuto il loro diritto ad essere chi sono anche sui documenti. Prima di arrivare alla fine del percorso, con il conseguimento della sentenza di rettifica anagrafica, per le persone trans si apre un limbo, in cui il loro aspetto già esprime il genere di elezione, mentre i documenti attestano il genere imposto dalla società, dal quale si vogliono affrancare. In questo lasso di tempo, la persona può andare incontro a vessazioni di ogni tipo: offese, minacce, discriminazione a scuola e sul luogo di lavoro, in famiglia e nel gruppo dei pari.
Il Comune può avvalersi dello strumento dell’identità alias, già in uso in molte scuole e università, per tutelare la privacy delle persone trans e la loro incolumità. Tale strumento prevede che, laddove questo non sia impedito esplicitamente dalla legge, i documenti richiesti dal soggetto – come tessere varie, certificati, permessi, abbonamenti – siano rilasciati con il nome di elezione, celando in un apposito database i dati legali del nome e del marcatore di genere cui l’alias si riferisce. In tal modo il Comune disporrebbe di un validissimo strumento per gestire i dati anagrafici della popolazione trans di riferimento.
In base al primo comma dell’art. 118 Cost., infatti, al Comune sono attribuite le funzioni amministrative e quindi anche la gestione dell’anagrafe. Al Comune quindi spetta la gestione dei dati anagrafici della popolazione di riferimento.
La legge del 14 aprile 1982, n. 164 ha imposto il cambio del nome e del marcatore di genere solo alla fine di un lungo iter, che prevede che la persona trans produca tutta una serie di documentazioni mediche, psichiatriche, psicologiche e giuridiche, tra le quali:

  • La certificazione psicologico/psichiatrica di inizio percorso. Tale documentazione è ottenuta dalle persone trans dopo almeno sei mesi di colloqui con psichiatrз e psicologз dei centri di incongruenza di genere riconosciuti. Tali colloqui sono volti a rispettare il periodo di diagnosi previsto dal DSM V per la disforia di genere e sono spesso molto invasivi, in quanto si prefiggono lo scopo di intercettare persone non pienamente convinte ed eventuali patologie mentali da “stabilizzare”.

 

  • La certificazione di disforia di genere, come stabilito dal DSM V, cui si fa riferimento per la diagnosi relativa. Si tratta della documentazione che attesta la presenza e la persistenza della disforia di genere, così come la valutazione dell’opportunità per il soggetto di cambiare sesso. Tali informazioni sono contenute in un documento psichiatrico/psicologico di uscita, diverso da quello di inizio percorso, che vuole convincere lǝ giudice civile sulla necessità di concedere il riconoscimento sui documenti dell’unico altro genere previsto dalla legge rispetto a quello attribuito d’ufficio dallo Stato. Tale certificazione, che si configura come un vero e proprio nullaosta a procedere, viene rilasciata in vista del cambio anagrafico e può prevedere anche la valutazione dell’opportunità per la persona trans di sottoporsi a eventuali operazioni chirurgiche di rettifica del sesso.

 

  • La documentazione medica attestante che il soggetto stia effettivamente svolgendo un percorso medico. In particolare, i tribunali vogliono che la persona trans faccia uso di ormoni femminilizzanti o mascolinizzanti, a seconda dei casi, per un periodo non quantificabile a priori, in genere un anno, ma sufficiente ad apportare le modifiche al corpo volute dalla l. 164/82. L’uso di farmaci femminilizzanti o mascolinizzanti per detto periodo è richiesto dai tribunali per soddisfare il criterio della irrevocabilità della scelta, valutato in base alla irreversibilità della situazione clinica, condizione ritenuta indispensabile, insieme alle modifiche apportate dall’uso degli ormoni, per soddisfare quanto prevede il primo comma dell’art 1, l. 164/82: “La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”. Adesso, dopo il d. lgs. 1 settembre 2011, n. 150, Cass. 20 luglio 2015, n. 15138 e C. cost. 21 ottobre 2015, n. 221, i tribunali, per rispettare la condizione suddetta, non impongono più la sterilizzazione tramite operazione di genitoplastica come condizione necessaria per il cambio anagrafico, [1] operazione chirurgica che non è desiderata da tutte le persone trans, ma fanno riferimento, oltreché alle condizioni summenzionate, ad una valutazione della serietà della propria decisione.

 

  • Infine, la sentenza del tribunale civile. Tale documento, che contiene l’ordinanza di rettifica anagrafica, si ha dopo un percorso giudiziario spesso irto di ostacoli, offuscato dalla possibilità per lз giudicз, offerta dalla stessa l. 164/82, di nominare una commissione tecnica di ufficio che può rallentare anche di parecchi anni la possibilità per la persona trans di modificare i documenti, rendendo così incerto l’esito di tutto il procedimento. Detta sentenza, che può contenere anche l’autorizzazione dellǝ giudice per le operazioni chirurgiche desiderate, è necessaria per poter disporre di ogni documento, certificato o diploma con il nuovo nome, oltreché per potersi sottoporre alla chirurgia di rettifica del sesso.

Il percorso è lungo e spesso incerto in quanto dipende dalla discrezionalità dei professionisti di vari settori chiamati ad accertare la serietà e univocità dell’intento della persona trans, senza che ci sia neanche l’assoluta certezza che il percorso porti all’esito tanto agognato.
Proprio perché si tratta di un percorso così delicato e pieno di situazioni potenzialmente problematiche, occorre una particolare attenzione e una specifica forma di tutela che protegga, laddove è possibile, la persona che esprime il passaggio da un genere ad un altro.
In base all’art. 26 del codice della privacy: “I dati sensibili possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante, nell’osservanza dei presupposti e dei limiti stabiliti dal presente codice, nonché dalla legge e dai regolamenti.”
Facendo riferimento anche a quanto stabilito dal Regolamento UE n. 679 del 2016, che ci dà una panoramica sui dati oggetto di particolare tutela, ciò che riguarda la condizione clinica e l’identità di genere della persona deve essere particolarmente attenzionato. Queste norme infatti identificano alcuni dati della persona che devono essere oggetto di una particolare forma di tutela: i dati, cioè, relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona. Se facciamo riferimento ad una persona trans che abbia un’espressione di genere non corrispondente al marcatore contenuto nei documenti, per il Comune produrre un attestato in cui non sia esplicitamente previsto dalla legge che debba contenere il nome legale, senza un consenso scritto della persona, per esempio un abbonamento della linea tranviaria, costituirebbe una violazione della sua privacy.
Si viene a creare quindi un contrasto tra l’art. 35 primo comma, del d.P.R. 396/2000: “Il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere costituito da un solo nome o da più nomi, anche separati, non superiori a tre”, e il fatto che la persona trans esprime caratteristiche di sesso diverse da quelle previste al momento dell’attribuzione del nome, cui il d.P.R. 396/2000 fa riferimento. Da questo contrasto ne nasce un altro, tra l’imposizione normativa che vuole corrispondenti nome e sesso legale della persona e l’esigenza di tutelare la privacy, le cui norme citate sopra esigono che l’uso dei dati personali riguardanti la salute e la vita sessuale siano autorizzati per iscritto dalla persona interessata. Se infatti il Comune rilasciasse una tessera con il nome legale ad una persona che esprime caratteristiche sessuali diverse da quelle risultanti dal documento, la sua condizione clinica sarebbe rivelata all’esterno senza consenso dell’interessatǝ.
Il Comune, per evitare tali contrasti, può utilizzare lo strumento dell’identità alias per farsi carico della tutela di questi dati, in quanto le informazioni cui la condizione trans si riferisce rivelerebbero all’esterno, se non tutelati sufficientemente, la situazione clinica e di genere che si vuole proteggere.
Non solo, ma se intendiamo la privacy un sistema di protezione della persona nella sua interezza, e quindi del suo progetto di vita, del suo percorso di crescita, del suo processo di autodeterminazione – come stabilito dagli artt. 2 e 3 Cost. e C. cost. n. 366/91 [2] – e non semplicemente una forma di tutela del mero dato, al Comune spetterebbe il compito, attraverso la gestione sicura e discreta dei suoi dati genetici, della condizione clinica e anche dell’orientamento sessuale, di rimuovere gli ostacoli che non consentirebbero il suo pieno sviluppo. E, naturalmente, oltre a proteggere lo sviluppo della persona, la protezione dei dati, attraverso lo strumento dell’identità alias, avrebbe anche lo scopo di proteggerne l’incolumità.

1. Di sterlizzazione, sia a proposito dell’operazione di genitoplastica che della terapia ormonale o altro procedimento medico, si parla nella sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dell’11 ottobre 2018 – Ricorso n. 55216/08 – Causa S.V. contro Italia, che cita direttamente la risoluzione 1728, 29 aprile 2010 del Consiglio d’Europa: “28. Nella risoluzione 1728 (2010), adottata il 29 aprile 2010, relativa alla discriminazione basata sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa invita gli Stati «a garantire nella legislazione e nella prassi, i diritti [delle persone transgender] (…) a ottenere dei documenti ufficiali che riflettano l’identità di genere scelta, senza obbligo preventivo di subire una sterilizzazione o altre procedure mediche quali una operazione di conversione sessuale o una terapia ormonale»

2. C. cost. 23 luglio 1991, n. 366, considerato in diritto, n. 3: “[…] Sin dalla sentenza n. 34 del 1973, questa Corte ha affermato che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione costituiscono un diritto dell’individuo rientrante tra i valori supremi costituzionali, tanto da essere espressamente qualificato dall’art. 15 della Costituzione come diritto inviolabile.
La stretta attinenza di tale diritto al nucleo essenziale dei valori di personalità – che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana – comporta una duplice caratterizzazione della sua inviolabilità. In base all’art. 2 della Costituzione, il diritto a una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente. In base all’art. 15 della Costituzione, lo stesso diritto è inviolabile nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria. […].”

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