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Il corpo è mio e me lo gestisco io: quanto noi transessuali sappiamo sulle operazioni di riassegnazione del sesso?

di Egon Botteghi per intersexioni.

Qui la versione tradotta in inglese da Lea Vittoria Uva

L’articolo prende spunto dal caso denunciato da Elena Trimarchi

Prima di conoscere la mia compagna, donna transessuale, ero convinto che l’operazione di vaginoplastica, di costruzione di una neovagina, fosse ormai un’operazione dagli esiti certi e dalle complicazioni rarissime.

Ero convinto che lei potesse “scegliere” serenamente tra avere un tipo di genitali riconducibili al femminile o trovare il suo equilibrio altrove, mentre io, da uomo transessuale, dovevo fare i conti con uno “scarto” più difficilmente colmabile, essendo l’operazione di falloplastica ad un livello molto più sperimentale, con risultati difficilmente prevedibili.

Ero giunto a questa conclusione leggendo libri dove dell’operazione di riassegnazione di sesso per le mtf (da maschio a femmina ndr) si parlava solo al positivo, descrivendone le tecniche, intervistando chirurghi, dando testimonianze soltanto del momento dell’intervento e della sua preparazione, facendo dell’operazione il punto di arrivo di una strada difficile e “disperata”, ma tale solo fino a quel momento, perché da quel giorno in poi le porte del paradiso si sarebbero aperte.

Evidentemente quello che mi mancava era un contatto reale e sincero con donne che si erano sottoposte a questo intervento, al di fuori delle passerelle, dei convegni, del dover convincere e convincersi che tutto vada bene, fuori dai denti insomma.

Alla mia compagna questo scambio “tra pari” non mancava e quindi aveva un quadro della situazione molto più realistico del mio: conosceva persone che, dopo l’operazione, hanno avuto infezioni alle vie urinarie, necrosi della clitoride, problemi agli arti dovuti alla posizione assunta per ore durante l’intervento.

Adesso anche io sono più accorto e capisco che anche le donne trans devono fare un po’ un salto nel vuoto quando decidono per la ricostruzione genitale.

Ma quali sono le informazioni che circolano a disposizione di queste donne? Quali e quanti sono le aspettative e i miti che si alimentano nella comunità transessuale a proposito degli interventi?

Leggo sul sito dell’Azienda Ospedaliera S.Camillo-Forlanini, alla voce “Complicanze” nella descrizione che viene fatta della vaginoplastica, intervento che eseguono anche in quell’ospedale:

Anche se raramente possono verificarsi complicanze anche gravi. L’intervento richiede molta cautela in quanto coinvolge un distretto corporeo in cui sono presenti organi particolarmente vulnerabili quali il retto e la vescica. Lesioni su questi organi possono produrre fistole (comunicazioni cioè tra il retto e la neovagina, tra la vescica e la neovagina) con conseguente perdita di urina o di feci attraverso la neovagina stessa e una serie di problemi conseguenti, anche gravi (processi infettivi locali o generalizzati). Queste complicanze richiedono interventi chirurgici riparatori delicati e impegnativi e l’elaborazione dei complessi effetti psicologici relati a tali complicanze.
Complicanze meno gravi e poco frequenti sono l’ematoma, il sieroma, l’infezione, la suppurazione, e si risolvono in genere spontaneamente con opportune medicazioni.
A volte una parte della cute con cui è rivestita la cavità vaginale può essere poco vitale sino ad andare in necrosi. In questo caso si può determinare un restringimento marcato della vagina in quanto la pelle non vitale determina una cicatrice che tende a ritrarsi. In tal caso può essere necessario un intervento successivo di rimodellamento e ampliamento della neovagina.

Le complicanze sono considerate “gravi” solo se pericolose per la vita stessa della paziente o anche se compromettono la riuscita nel tempo dell’intervento, senza per questo essere una questione di vita o di morte per la persona?

Doversi operare nuovamente è considerata una complicanza grave o meno?

Ad esempio, la stenosi della vagina, dove cioè la neovagina perde profondità e quindi diventa inadatta ad una vita sessuale penetrativa o si chiude del tutto, è una complicanza grave o no?

Conoscendo le motivazioni per cui una donna transessuale decide di sottoporsi ad un intervento tanto complicato direi di sì, però non sembra così rara, se guardiamo ai risultati di uno studio presentato ad un convegno nazionale SIA, a Torino, nell’ottobre del 2012.

Con mia sorpresa ho letto che delle quarantadue pazienti che dal 2005 al 2012, al CIDIGEM di Torino, si sono sottoposte all’intervento di costruzione della neo vagina, otto sono andate incontro a stenosi e tre alla completa coartazione della stessa, quindi una su quattro.

Interessante che nello stesso studio emerga che non ci sono elementi statistici in grado di prevedere questa complicazione… le pazienti devono solo avere fortuna.

Da persona transessuale mi sento di affermare che sottoporsi ad altri interventi successivi non è una complicanza lieve, sia da un punto di vista fisico che emotivo.

Quanto le persone transessuali sono preparate ad affrontare tutto questo stress o quanto invece sono portate a credere che l’operazione sarà la fine dei loro mali, con ricadute anche drammatiche quando questo non avviene?

Uno studio svedese, “Long-Term follow up of Transexual Person Undergoing Sex Reassignament Surgery”, ha seguito il follow up delle persone che hanno eseguito la riassegnazione del sesso in quello Stato dal 1973 al 2003, ed ha ricavato dati che fanno riflettere: maggior rischio di suicidio della popolazione transessuale rispetto a quella dello stesso sesso e maggior ricorso ad interventi psichiatrici.

Gli autori dello studio consigliano un maggior sostegno psicologico dopo l’operazione e maggior accesso alla cura del corpo.

Questo, secondo me, è un problema anche italiano: nel nostro paese le persone transessuali, per accedere al percorso, che sia anche “solo” ormonale, devono fare della psicologia preventiva, che, secondo i protocolli ONIG, non deve essere inferiore a sei mesi. Quindi si rischia di cadere in un ossimoro ed in una situazione che può mettere in difficoltà sia l’operatore che l’utente: un percorso di psicoterapia coatto, un TSO psicoterapeutico. 
Quando però, il “gate keeper“, lo psicologo o psichiatra di turno, ha dato la diagnosi di DIG al paziente, e quindi gli viene dato accesso agli ormoni, alle operazioni (dopo il nulla osta del tribunale), la persona transessuale viene lasciata sola.

Sola con un corpo che cambia, sola ad affrontare una società e delle istituzioni transfobiche, sola a cercare informazioni sulle operazioni, sola quando questi interventi non si rivelano quello che aveva creduto o non vanno come dovevano andare.

Quanto, gli operatori dei centri specializzati, informano gli utenti sugli esiti sulle operazioni? Si pone attenzione affinché i “pazienti” abbiano chiaro il quadro della situazione, di quello che andranno ad eseguire sui loro corpi e che le aspettative siano realistiche?

Uno psicologo che esegue i colloqui post-operatori alle persone transessuali ricoverate all’ospedale Cattinara di Trieste, e che io ho avuto modo di incontrare proprio in quella veste, dopo il mio intervento al petto eseguito in quella struttura, riferiva che molte persone hanno aspettative del tutto infondate sull’intervento che hanno eseguito, come la “neo-donna” che credeva che le avrebbero “impiantato” un utero.

Per questa ragione egli sta cercando di potenziare questo servizio di sostegno all’interno di questa struttura.

Io stesso sono stato testimone del caso della ginecologa che ha dovuto chiamare la struttura che seguiva la persona ftm che stava visitando, per chiedere se al ragazzo fosse stato tolto o meno l’utero perché lui non lo sapeva. Eppure aveva fatto l’operazione di isterectomia poco tempo prima!

Quindi sarebbe auspicabile concentrare gli sforzi degli operatori (e della comunità trans) invece che solo su di una psicologia preventiva, che la maggior parte delle persone trans avverte come ostile e punitiva, sul sostegno al momento di maggior bisogno di queste persone, come nel caso di una operazione non andata come previsto.

Altresì sarebbe fondamentale che i chirurghi dessero informazioni chiare e verificabili sugli esiti delle operazioni che eseguono, sulle possibili complicanze e sulla incidenza numerica delle stesse. Tutto questo è difficilmente raggiungibile senza un follow up sulle operazioni di riassegnazione del sesso e senza che le persone transessuali si sentano sufficientemente a loro agio da poter parlare sinceramente e serenamente dei loro interventi, a beneficio dell’intera comunità.

Il corpo transessuale non è un corpo che si può straziare, tanto è spacciato e condannato in partenza, ma è un corpo da rispettare perché alla ricerca, come tutti i corpi viventi, della sua felicità e della sua massima espressione di benessere.

disinganno, part. di Francesco Queirolo

Disinganno, part. di Francesco Queirolo

About The Author

Egon Botteghi

Attivista antispecista e per i diritti GLBTIQ. Fondatore della Fattoria per la Pace Ippoasi (2008-2012). Laureato in filosofia, fa parte del collettivo anarcoqueer femminista antispecista Anguane e della redazione di antispecismo.net; cofondatore di intersexioni, è referente toscano di Rete Genitori Rainbow e referente nazionale per la genitorialità trans. Ha ideato il primo convegno nazionale “Liberazione GENERale. Tavola rotonda sulle correlazioni tra antispecismo, antisessismo, intersessualità e omotransfobia” (Osteria Nuova, Firenze, 2013) volto a mettere in evidenza le interconnessioni tra antispecismo e lotta per le minoranze (per sesso/genere, etnia, identità di genere, orientamenti sessuali).

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