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Il silenzio della terra. Sociologia postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo

Ringraziamo Sabrina Marchetti per questa sua recensione di <Il silenzio della terra. Sociologia postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo> di Raewyn Connell e Laura Corradi, Mimesis, 2014.

Una versione ridotta della recensione è stata pubblicata in “Studi culturali”, 1/2015, 10.1405/79440, pp. 121-125.

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«I can’t breath». Non riesco a respirare. Queste poche, scarne parole sembrano essere dappertutto in questi giorni di dicembre 2014. «I can’t breath» è sulle magliette dei giocatori, sui cartelli degli studenti, sulle pagine di Facebook e dei quotidiani. Tre semplici parole il cui senso è colto immediatamente, da chi si trovi a leggerle anche per caso, sapendo che sono le ultime parole dette da una persona per la quale il non riuscire a respirare ha significato la fine della propria vita. Sappiamo che queste sue parole sono rimaste inascoltate da chi, imperturbabile, ha continuato a bloccare il suo respiro. Sappiamo che sono le ultime parole dette da Eric Garner, un uomo statunitense nero, bloccato a terra e ucciso in questo modo da un agente di polizia bianco ritenuto successivamente innocente dai magistrati.

Una frase di una potenza discreta, insinuante, che lentamente si fa strada nei pensieri e fa eco, a mio parere, al senso profondo di un testo come «Il silenzio della terra. Sociologia postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo». Un breve testo di circa 130 pagine ma di grande potenza. Racchiude al suo interno due saggi distinti frutto: il primo di Laura Corradi, sociologa italiana con lunga esperienza di ricerca anche in India e nell’Asia Pacifica, e il secondo della rinomata sociologa australiana Raewyn Connell, conosciuta in Italia soprattutto per i suoi lavori sulla mascolinità. In realtà, negli ultimi anni Connell si è spesa molto per la questione aborigena che è centrale nel contesto del Pacifico sia dal punto di vista intellettuale che politico.

Torniamo infatti alla questione del respiro. Il respiro è ciò che di più fondamentale abbiamo in comune come esseri viventi su questa terra, animali umani, non-umani e piante. La necessità condivisa di poter respirare dovrebbe essere la base della nostra eguaglianza, del nostro diritto alla vita. Dovremmo tutti egualmente essere in grado di poter respirare. Eppure non è così, il respiro di alcuni non conta tanto quanto quello di altri. La richiesta di poter respirare di alcuni, rimane inascoltata, silente. Anche la terra, dicono Connel e Corradi, è sempre con noi (anzi sotto di noi) ma è ritenuta silenziosa; solo alcuni si fermano e ascoltano la sua voce, le sue grida. Non riuscire a respirare significa essere privati di quello che c’è di più fondamentale di noi, più del nostro stesso corpo e dei nostri pensieri. È la forma di spossessamento più estrema che c’è.

E sul tema dello spossessamento mi riallaccio al saggio di Raewyn Connell contenuto in questo volume, prima traduzione italiana di una parte del suo più ampio «Southern Theory» (R. Connell, 2007, Southern theory: The global dynamics of knowledge in social science, Cambridge, Polity). In queste pagine, Connell argomenta come sia intrinseco al suo essere australiana la nozione di spossessamento. Il luogo in cui è nata e «ritiene di appartenere» è Hawkesbury, «il paese di sabbia», non lontano da Port Jakson dove gli inglesi arrivarono nel 1788 (p. 111). Il luogo che oggi lei chiama «la mia casa» (ibidem), dice, apparteneva in tutto e per tutto ad aborigeni Wangal fino a solo un secolo prima che lei nascesse. Poi ne furono privati. Si potrebbe riscrivere l’intera storia mondiale come una storia di spossessamenti continui, la storia di come gruppi umani si sono tolti l’un l’altro quello che avevano di più importante: l’acqua, la terra, la cultura, la vita.

A partire da questa consapevolezza, Connell offre in queste pagine una riflessione profonda, ricca di informazioni, riferimenti e materiali, che va a toccare i punti nevralgici di diversi dibattiti contemporanei, fra loro intrecciati: la questione delle culture aborigene, la privatizzazione delle terre e delle risorse pubbliche comuni, la tensione fra pensiero postcoloniale e scienze sociali, il rapporto fra colonialismo, globalizzazione, spazi e potere, per dirne alcuni. Sono tutti temi che tornano fortemente nelle discussioni accademiche e politiche di questi ultimi anni, ma che Connell approccia in modo originale mettendo al centro la sua definizione di luogo: il luogo come radicamento in un determinato paesaggio, epistemologicamente necessario se si vuol conciliare l’aspirazione a una teoria sociologica che sia, al tempo stesso, generale e locale. È quella che lei chiama una «teoria sporca», in opposizione alle astrazioni delle «teorie pure» (p. 117).

In questo volume, il saggio di Connell è preceduto da un altro ugualmente importante. Il saggio di Corradi nasce con la funzione di introdurre al pubblico italiano lo scritto della Connell. Però va certamente oltre, fornendo un’ampia rassegna critica del dibattito storico, sociologico e letterario attorno a questioni quali il pensiero postcoloniale, il femminismo nero statunitense, la questione della decolonizzazione, l’ecofemminismo e il pensiero aborigeno.

Quest’ultimo è il tema forse più nuovo per il dibattito italiano e anche quello che meglio introduce il saggio successivo di Connell. Ne paragrafi 6 e 7, Corradi illustra come le teorie indigene siano caratterizzate dall’essere al tempo stesso pensiero e esperienza, frutto di studio e analisi intellettuale, ma anche di lotte e rivendicazioni. La simultaneità di questi elementi è la base delle teorie indigene che, in diversi settori disciplinari, discutono i diritti delle popolazioni native alla terra, alla salute e in generale alla propria autodeterminazione.

Le questioni del luogo e dello spossessamento sono anche qui centrali. Corradi approfondisce in particolare l’importanza della pratica di resilienza che le comunità aborigene oppongono alle privazioni loro imposte. La resilienza è una pratica dal forte carattere spirituale ma che ha anche bisogno di una grande capacità di leadership per essere portata avanti e trasmessa a sempre più persone, di generazione in generazione.

In conclusione, Corradi ricostruisce nel suo saggio una genealogia che lega autori e autrici tra loro sia geograficamente che teoricamente distanti, in modo da far risaltare i nessi e le differenze fra loro agli occhi di lettrici e lettori italiani. In questo, infatti, l’autrice sembra seguire il monito della Connell di tener i piedi ben piantati a terra, nel momento in cui riporta dibattiti lontani in una maniera che possano essere compresi in tutta la loro importanza da un pubblico italiano. Per fare un esempio, tale esercizio è decisamente interessante nel momento in cui Corradi spiega il ruolo complesso che ha avuto il pensiero di Antonio Gramsci negli studi sulla subalternità fuori dall’Italia e come però, al tempo stesso, non possa essere compreso se non messo in relazione con le specificità storiche del Sud Italia e col pensiero politico, filosofico e ovviamente antropologico in cui lui stesso si era formato. Ancora una volta, un invito per le scienze sociali e politiche a fare come l’aquilone: volare alto ma senza perdere il legame con la terra.

Sabrina Marchetti

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