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In due direzioni ostinate e contrarie

di Lorenzo Santoro 30 Luglio 2013

una versione ridotta è uscita sabato 27 Luglio su il Manifesto

Non ho mai fatto sesso completo. A dire la verità quando ho cercato di farlo non è mai stato completamente piacevole: lo faccio in modo distante, lo faccio in modo da allontanare le persone, nella mia testa è qualcosa da interporre tra me e l’altro, una zona franca dove l’altro può mettere tutto ciò che vuole. Ma di certo io do quel poco che basta per dire che mi sono fatto una scopata.

L’idea della penetrazione mi arriva come disintegrante, un’esplosione dei miei confini. Immagino l’atto come qualcuno che scassina le porte del mio corpo, un’invasione, un laceramento, o al contrario un’implosione, come qualcuno che mi soffoca con un cuscino, come se qualcuno mi obbligasse a tenere la bocca aperta e un camion ci svuotasse dentro centinaia di metri cubi di calcinacci fino a riempirmi totalmente. Quando parlo di penetrazione non parlo solo di un cazzo in culo e per porta non intendo solo l’ano. Ho blindato tutti i miei buchi, le orecchie, le narici, i pori, gli occhi, la bocca. Sono in assetto di guerra, non d’amore né di sesso. Sono sempre io quello che fa, che tocca, che mette, che decide, un comportamento definibile in maniera semplicistica come attivo. In realtà sono passivo alle mie paure, i miei amplessi sono masturbazioni paranoiche, più che godere appago le nevrosi, un circolo vizioso che mi porta spesso a preferire di non togliere le mutande e al massimo di farmi una sega da solo, nella mia camera.

Devi fare pace con il culo, mi ha detto Enrico qualche mese fa mentre facevamo colazione al bar sotto casa. La sera prima, lui è stato il primo ragazzo che ho lasciato entrare nel mio corpo. Ancora non ci crede che ho perso la verginità a 29 anni, non ci crede mai nessuno.

Ma come si fa a spiegare a un ragazzo che mi fa schifo essere toccato? Come faccio a dire che, se fermo nella mente l’immagine di un paio di mani, dopo solo un istante penso che siano migliaia di ragni che mi brulicano sul corpo e si infilano ovunque anche se io non voglio? Mi basta un istante di condivisione di nudità con l’altro e in un batter d’occhio mi ritrovo all’ospedale su un lettino a farmi visitare, visite di cui nessuno mi ha mai spiegato il motivo, analisi di cui nessuno mi ha mai spiegato il significato; a farmi toccare, con quelle mani che vanno su e giù, avanti e indietro come fossi un pianoforte o un’arpa, mani che hanno solo preso senza restituirmi niente, mani che mi hanno rubato l’intimità.

L’ospedale è un luogo in cui ritenere il possesso del proprio corpo non è un dato di fatto: non si capisce con chiarezza cosa è tuo, cosa è del dottore, non è detto che le mie certezze siano tali per tutti gli attori in scena e solo questo basta per farle diventare incertezze. L’ospedale non è la strada, non è il mondo fuori, è un luogo dove non tutti sono sullo stesso piano, c’è una precisa gerarchia e chi usufruisce del sistema sanitario nazionale può accedere ai trattamenti di salvaguardia del benessere solo se diventa paziente. Si passa dall’essere soggetti all’essere oggetti della discussione, le informazioni non vengono date a una persona, vengono applicate su una persona. Questo è il primo passo per perdere il senso di sé.

Ho tolto il seno in concomitanza del cataclisma della diagnosi della sindrome di Klinefelter 47 xxy, che tutto ha messo in discussione, che ancor più mi ha confuso, facendomi sentire da una parte sollevato per aver tolto quello che mai ho voluto, dall’altra vuoto perché non sono stato affiancato in questo viaggio da un percorso psicologico che mi insegnasse ad elaborare un lutto e a edificare il nuovo. Nell’assenza di comprensione ho percepito quest’atto come violento, come qualcosa che mi è stato fatto, non ho costruito l’uomo, ho solo “ucciso†la donna. Questo ha innescato nella mia mente un effetto domino che in breve tempo ha distrutto tutto. Dopo il “delittoâ€, coadiuvato da cure mediche il cui effetto è una virilizzazione che io desidero inconsciamente ma che non ho elaborato in modo tale da sentirmi il motore di tale desiderio, mi sento messo al muro e obbligato ad assumere testosterone.

È stato deciso che io debba essere maschilizzato, ma come può questo desiderio venire da altri che non sono io? Testogel 50 ml, lo prendo, ma cosa fa? Non lo so. Flashback: il professore annuncia ai suoi assistenti che molto probabilmente la mia produzione spermatica è assente. Vorrei rispondere che non è così, ma sto al gioco della medicalizzazione. Il dottore non lo dice a me: io sono l’oggetto del libro sul quale ha studiato, in cui c’è scritto che chi ha i testicoli oltremodo piccoli non produce sperma. Il manuale parla di casi, non di persone. Io lo sperma lo produco e lo so bene perché come tutti mi masturbo fin dall’adolescenza, ma il tono intimidatorio e spersonalizzante dei medici mi induce a fare lo stesso il test.

Il risultato delle analisi è azoospermia, ma la risposta non viene consegnata a me, lo scopro due anni più tardi che sono sterile. La virilità, la fecondità, la creatività si sciolgono come mattoni di fango seccati al sole sotto una pioggia inaspettata e incessante. Questo vuoto mi fa tornare alla mente i ricordi della guerra dei miei nonni, mi sento come macerie fumanti dopo un bombardamento. Di me rimane solo la malattia.

Mi ritrovo tra due direzioni ostinate e contrarie, la sindrome di Klinefelter 47 xxy, una patologia, e l’intersessualità, una condizione. Faccio mia la seconda, dico di essere intersex ma mentre la parola “intersesso” mi si presenta scevra da categorizzazioni mediche e priva di quell’intento voyeuristico che oltre a scrutare nomina – ridonando al mio corpo le sue forme per quelle che sono, maschili e femminili insieme e leggibili in un unicum che non può scindere in due parti una persona, non sono metà e metà, sono tutto uno – la sindrome si presenta con delle caratteristiche spaventose. Mi fa sentire come se non assomigliassi più ai miei genitori, ai miei nonni, a mio fratello, ma a tante altre persone che non conosco e che condividono con me la deformità, persone che non sono le mie radici, i miei ricordi.

Le mie foto non sono più quelle che mamma tiene nell’armadio in camera mia, le foto del mio corpo si trovano  sui manuali di endocrinologia, sui siti internet, nei blog, sono sempre nudo eppure non ho neanche un’immagine di me bambino in cui vengo immortalato senza vestiti. All’improvviso la mia immagine si deforma, i fianchi si allargano, le spalle si restringono, le braccia e le gambe si allungano, la crescita di peli sul petto si riduce, il pene diventa micro, si manifesta l’ipogonadismo, il seno diviene ginecomastia, le ossa si assottigliano per l’osteoporosi, soffro di disfunzioni tiroidee, anomalie cardiache, mi sento costretto a familiarizzare con una nuova terminologia che mi caratterizza: malattia genetica, anomalia cromosomica, cromosoma x soprannumerario, 47 xxy, affetto da sindrome di Klinefelter, sintomatologia conclamata, aneuploidia, anomalie strutturali del cromosoma x,  trisomia. Apprendo che anche in altri mammiferi come ad esempio i topi, possono verificarsi casi di sindrome xxy. I topi.

Per salvaguardare quella briciola che ormai è quello che mi resta del  mio nucleo più autentico, nel disperato tentativo di costruire dei limiti invalicabili entro i quali io possa comprendere e costruire i miei desideri e oltre i quali la maschilizzazione che mi viene imposta non ha alcun potere su di me, genero dalla mente un personaggio femminile molto potente, ma che offusca la mia vera identità. Lollette è disarmonica, onnicomprensiva, deleteria, distrugge la mia vera femminilità, quella sana, che ho sempre cercato di vivere in armonia con la mia maschilità, pur nell’estrema difficoltà determinata dalla forme.

Entro in ospedale tutto uno, ne esco vivisezionato, tagliato in due, genero una superfemmina motivata dall’esistenza dell’intersessualità che mi permette di divenire parte attiva della storia e di mettere in dubbio l’iter medico. Questa superfemmina mi apre la possibilità di sentirmi non malato ma mi preclude quella di essere sano, perché l’idea della sua esistenza costruisce nei miei pensieri per opposizione l’idea del supermaschio, e questo non mi aiuta ad appropriarmi attraverso di lei di quelle caratteristiche inconscie e fisiche di un semplice maschio. Riempio il vuoto lasciato dal seno amputato con il superfemminile perché mi sento mancante di questa parte mia, allo stesso tempo però io voglio essere maschio, ma essere maschio significa accettare la medicalizzazione.

Sembra non esserci via d’uscita: se ho la sindrome di Klinefelter non posso fare altro che sottopormi a questo iter, ma se sono intersesso, quella malattia che prima mi sembrava una fortezza indistruttibile diviene un castello di carte e basta un soffio per spazzarlo via. Avere un sesso mi permette di edificare quel che voglio e di preoccuparmi del mio benessere, avere una disfunzione sessuale non mi permette neanche di dire io sono.

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