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Come un sasso gettato in uno stagno

di Andrea Barbieri

Quella che sto per proporvi è la lettura di un breve articolo del filosofo giornalista Marcello Veneziani intitolato “L’Italia cambia sesso” su Il Giornale del 29 giugno 2013, in cui scrive delle terapie di riallineamento del corpo nel caso della transessualità (per il suo accenno all’intersessualità rimando invece a questa risposta).

Avevo pensato a una piccola premessa sul linguaggio per mostrare come le parole non solo descrivono fatti o immaginazioni, ma allo stesso tempo agiscono concretamente nel mondo. Questa dimensione di azione delle parole è chiamata dalla linguistica contemporanea pragmatica, e la funzione che il linguaggio svolge in questi casi è detta performativa, parola che richiama l’idea di performance, cioè qualcosa che si esegue.

Volevo anche accennare a un libro di John Austin “Come fare cose con le parole” che dà inizio a questo tipo di studi.
Ho cambiato idea perché mi è parso che quella premessa sarebbe stata troppo astratta, distante dalla vita – mentre le parole di Veneziani fanno proprio questo: toccare maldestramente la vita delle persone.
Poi per caso ho ritrovato un brano dalla “Grammatica della fantasia” di Gianni Rodari, che, senza schematismi, con l’eleganza e delicatezza di una metafora capace di parlare ai bambini, rende bene il modo in cui il linguaggio fa cose, di come ciò può avvenire a un livello nascosto, di come l’effetto si propaga all’intera comunità.

«Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticati, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o micro eventi, si succedono in un tempo brevissimo. Forse nemmeno ad aver tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni.
Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni in un movimento che interessa l’esperienza e la memoria, la fantasia e l’inconscio e che è complicato dal fatto che la stessa mente non assiste passiva alla rappresentazione, ma vi interviene continuamente, per accettare e respingere, collegare e censurare, costruire e distruggere.»

Un altro esempio che vorrei riportare è una scena del film “Malcolm X” di Spike Lee. «Hai mai controllato la parola “nero” sul dizionario?» chiede Baines a Malcolm accompagnandolo nella biblioteca del carcere. “Nero”: privo di luce, sudicio e sporco, immondo, demoniaco, malvagio, mascalzone. “Bianco”: il colore della neve immacolata, tutti i colori della luce, esente da imperfezioni, innocente, puro, onesto, da rispettare. Allora Malcolm sbotta: «questo libro è scritto dai bianchi!», Baines risponde: «la verità sta là dentro se leggi dietro le parole, devi prendere tutto ciò che dice l’uomo bianco e usarlo contro di lui.»

Insomma, per difendere la dignità è fondamentale conoscere le parole (le pietre) e la loro capacità di modificare l’assetto sociale (lo stagno).

Ora iniziamo a leggere il testo di Veneziani.

«Ma gli italiani come reagiscono alla crisi? Cambiano lavoro, partito, banca, Paese? No, cambiano sesso. Ho davanti agli occhi una statistica vera e impressionante: da quando c’è la crisi le operazioni per cambiare sesso hanno avuto un’impennata pazzesca.»

La dimensione in cui Veneziani porta la faccenda è quella del ridicolo servendosi di un registro iperbolico e grottesco satirico. Nel seguito la terapia di riallineamento del corpo all’identità di genere è nominata con le perifrasi «taglia e cuci» e «farsi cambiare i connotati» che producono enfasi sull’idea di una persona transizionante e sarcasmo. Ma sopra tutto fanno apparire inammissibile un linguaggio appropriato e dignitoso.
Infatti Veneziani evita concetti adeguati come “identità di genere”, “transizione mtf o ftm”, “terapia ormonale/chirurgica”. Così come manca un accenno al basilare “diritto alla salute” come stabilì la Corte Costituzionale trent’anni fa.

Che cos’è il ridicolo? «È ridicolo ciò che merita di essere sanzionato dal riso, quel riso … definito “di esclusione”. Esso significa la sanzione della trasgressione di una regola ammessa, un modo di condannare una condotta eccentrica, che non si giudica abbastanza grave e pericolosa per reprimerla con mezzi più violenti. … Il ridicolo si esercita in favore della conservazione di quanto è ammesso …» (“Trattato dell’argomentazione. La nuova retorica“, Perelmann e Olbrechts-Tyteca).

Il ridicolo delegittima radicalmente l’interlocutore facendo leva su un giudizio/pregiudizio diffuso nell’opinione comune. Nel caso della transessualità la sanzione del riso è particolarmente potente sia sul piano del discorso che su quello psicologico, perché si basa sul pregiudizio cristallizzato nel senso comune per cui i sessi non rientranti nel modello dualistico femmina-maschio sono da stigmatizzare.

Eppure per evitare ogni tipo di stigmatizzazione la Carta dei doveri del Giornalista prescrive che «il giornalista s’impegna ad usare il massimo rispetto nei confronti dei soggetti di cronaca che per ragioni sociali, economiche o culturali hanno minori strumenti di autotutela.» Proprio così, il massimo rispetto.

Veneziani prosegue elencando le ragioni che secondo lui spingerebbero ai gravosi iter medici. Ripete la stessa parola all’inizio di ogni frase: «c’è». In retorica è un’anafora, produce enfasi sull’elenco e parallelismo tra le voci, quasi che l’una non esistesse senza le altre.

«C’è l’idea che il corpo è mio e me lo decido io; autarchia sessuale. C’è il desiderio di rifiutare la realtà e la sorte ricevuta. C’è la voglia di vivere più vite in una. C’è l’indole a cambiar casacca (i soliti voltagabbana). C’è la vita come diritto e piacere, non come compito e responsabilità. C’è la patologia o la sofferenza di una vita vissuta contro se stessi. C’è la fuga da mogli o genitori. C’è l’epoca mutante.»

L’elenco è reso semiserio rivolgendosi a «i soliti voltagabbana», ma più che disinnescare sembra ravvivare quell’ambiente retorico del ridicolo, come se proprio non valesse la pena parlare in modo appropriato e dignitoso della transessualità. A ogni modo si può fare una verifica fattuale. Un giornalista che seriamente si chiede quali ragioni spingono alla transizione deve cercare la risposta in «autorevoli fonti scientifiche» (così prescrive il codice deontologico). In questo caso sono gli standard di cura internazionali redatti dalla “World Professional Association for Transgender Health”. Sono on line qui.

La risposta è: la transizione ormonale-chirurgica è una soluzione alla “disforia di genere”.
«La disforia di genere si riferisce a un disagio o un’angoscia causata dalla discrepanza tra l’identità di genere di una persona e il sesso assegnatole alla nascita (e l’associato ruolo di genere e/o le caratteristiche sessuali primarie e secondarie).»

aggiungendo:

«Alcune persone sperimentano la disforia di genere a un livello tale che la sofferenza raggiunge criteri per una diagnosi formale che può essere classificata come disturbo. … Un disturbo è la descrizione di qualcosa nei cui confronti una persona si trova a combattere, non una descrizione dell’identità della persona.» [Standards of care VII, 2011, trad. mia].

Dunque fare esperienza dell’identità di genere disallineata dal corpo e/o dal ruolo di genere non è in sé una patologia psichiatrica, ma questa condizione può portare un livello di sofferenza tale da rendere necessario lo strumento diagnostico.

Del singolare elenco di Veneziani soltanto l’espressione «sofferenza di una vita vissuta contro se stessi», seppure come approssimativa metafora, si avvicina alla realtà delle persone che conducono una transizione. Il resto produce disinformazione alimentando un’immagine bizzarra della transessualità.

L’articolo si chiude con allusioni sessuali; è immaginato un corpo grottesco; è nominata la violenza domestica (non si capisce quale collegamento possa avere con la transessualità).

«Per il Paese dell’inciucio la prossima tappa è l’ermafrodito col fallo laterale e la vagina pectoris. Vogliamo la botte piena e la moglie ubriaca, anzi botte alla moglie e sesso ubriaco. Dai boxer al tanga, mutatis mutandis.»

Allora, tornando alle parole di Rodari, quali onde di superficie e di profondità sono provocate dal sasso gettato nello stagno?

Per rispondere è utile un saggio tradotto qualche anno fa “Parole che provocano. Per una politica del performativo” di Judith Butler, sul tema del discorso violentemente discriminatorio di matrice razzista, omofobica, eccetera, il così detto “hate speech“. L’autrice osserva che una persona esiste per gli altri in quanto riconosciuta. Il riconoscimento passa attraverso atti linguistici che chiama l’essere appellati. Questi atti costituiscono la soggettività dell’individuo (così si diventa persone, cittadini, soggetti di diritti, eccetera).

Si è riconosciuti soggetti attraverso rituali linguistici, e oltre questo circuito del riconoscimento c’è una forma di esclusione che Teresa De Lauretis ha chiamato abiezione per individuare una condizione di particolare stigma sociale legato all’identità sessuale.

Il linguaggio è il delicato strumento per costituire la soggettività/dignità delle persone transgender (come di tutte le altre). Allora è guastando il linguaggio con una cattiva retorica, poco attenta alla verità e al rispetto, che si dà inizio all’abiezione.

Per completare la lettura, come viatico, ho scelto un’immagine dell’artista Joseph Kosuth.

Esposizione "Freud, Wittgenstein and Musil", Castelli Gallery, Settembre - Ottobre 2012

Esposizione “Freud,
Wittgenstein and Musil”, Castelli Gallery, Settembre – Ottobre 2012

Sui muri di una sala (è la galleria di Leo Castelli a New York) sono riportati pensieri di Freud, Wittgenstein e Musil. Le parole però sono cancellate da bande nere. I pensieri diventano illeggibili, inservibili. Immaginando di essere i visitatori di quella sala possiamo avere un’esperienza sensoriale, vedere come qualcosa di concreto il linguaggio corrotto e il vuoto che lascia nel mondo.

 

 

 

 

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