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Ero sovradeterminante. Sono diventato femminista!

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di Barbone Rocker, in abbattoimuri 

In questi giorni, il lancio dell’hashtag #WomanAgainstFeminism, ha aperto, dentro e fuori il mondo dei femminismi, un feroce dibattito. Pur avendo la mia opinione su quanto accaduto, vorrei, invece, dire cosa ha fatto il femminismo per un giovane uomo come me, per farlo dovrò necessariamente partire da alcune vicende personali, a dimostrazione (semmai ce ne fosse bisogno) che il personale è politico.

Circa due anni e mezzo fa, finiva, in maniera brusca, quella che io reputo essere stata la relazione più importante della mia vita. Dopo un primo lungo periodo di auto-riflessione, grazie al femminismo sono potuto poi passare alla fase di auto-critica – sul “perché” la relazione fosse naufragata – non è stato facile, però una perdita tanto incolmabile meritava una profonda analisi.

Giungo alla consapevolezza che la colpa era di una lenta, ma, inesorabile esplosione di comportamenti oppressivi da parte mia; gesti, parole (del tutto insensati), che emergevano durante i rarissimi momenti di conflitto. Sono riuscito a dare un nome a ciò che ci è crollato addosso, si chiama “amore patriarcale”.

Nonostante non fossi mai stato sessista, e, giĂ  da anni, insofferente verso la cultura machista e predatoria di molti uomini, era palese che io avessi dentro me, una base di insicurezze, che facevano scattare una molla nascosta, subdola, la quale mi portava a perdere il controllo.

Nel momento in cui lei decise di chiudere, io ero veramente incredulo, a ripensarci oggi mi rendo conto di quanto io fossi inconsapevole della gravità dei miei gesti, non dico questo a mia discolpa, piuttosto lo dico per rendere ancora più “pesante” il ricordo della mia inconsapevolezza e ancora più importante, invece, la mia presa di coscienza, resa ancora più potente e costruttiva, in un secondo momento, dalle teorie e dalle pratiche femministe.

Facendo introspezione, mi rendo conto, che, a tratti, la vicenda assume caratteri quasi grotteschi, principalmente a causa del fatto che, in realtà, io avessi già dentro me alcuni semi di etica egalitaria. Come tant@, guardando a un futuro remoto, sognavo una famiglia, e la immaginavo, però, in uno stato nel quale venisse garantita al padre la possibilità di fare il genitore dedicando tempo di qualità e una costante presenza, e, alla madre, di dedicarsi a una carriera che la rendesse indipendente e soddisfatta, supportata da un sistema che non sacrificasse le sue aspirazioni in caso di maternità, spesso, io e lei, sognavamo ad occhi aperti uno scenario simile.

Oggi, la mia consapevolezza, mi porta a capire che, visti questi e altri presupposti, i miei errori non fossero dettati da un mio stereotipato “modello di ruolo maschile”, o da un suo stereotipato “modello di ruolo femminile”, i ruoli di genere non c’entravano, eravamo semplicemente due persone che si amavano, che si rispettavano, che vivevano un rapporto fatto di reciprocità. Nei rari momenti di conflitto, però, questo rispetto, da parte mia, veniva a mancare, io gettavo veleno, vomitavo rabbia e poi mi chiudevo a riccio, senza possibilità di dialogo alcuno, doveva essere lei a rincorrermi e, devo ammettere che, in una manciata di occasioni, questo sovradeterminarla mi era piaciuto. Ora me ne vergogno profondamente, in un paio di casi, sentire che avevo questo potere, mi appagava; é il subdolo fantasma del dominio e della sottomissione, della colpevolizzazione, che può benissimo legarsi e fondersi con pratiche sessiste e maschiliste; ma, può anche essere totalmente trasversale e colpire aldilà del binarismo, aldilà del genere, adilà dei ruoli, aldilà dell’orientamento sessuale e delle preferenze e delle pratiche individuali.

Poco fa ho affermato che la nostra è stata una relazione basata – tra le varie cose – anche sul rispetto. Non è del tutto vero. Questo l’ho capito solo molto tempo dopo.

Il punto è che, quando perdi il controllo, anche se in rarissime occasioni (da contare sulle dita di una sola mano, in anni), non stai mica varcando una zona franca dentro la quale c’è un mondo a parte che ti permette di essere quasi “un altro te stesso”. Molto banalmente e stupidamente io non realizzavo questa cosa, credevo che, una volta risolto il motivo del litigio, qualsiasi fosse stato il mio atteggiamento durante la conflittualità, tutto sarebbe stato dimenticato o accettato.

In realtà non era così, e, volta dopo volta, in maniera inconscia, ho aggiunto pezzetto dopo pezzetto, un peso opprimente sulle sue possibilità di autodeterminazione.

Di fatto, ero un oppressore, non solo in quei precisi momenti conflittuali (come erroneamente pensavo nelle prime fasi di auto-critica), ma anche per tutto il resto del tempo, in quanto, gli effetti di questi scontri feroci, poggiavano, in modo silenzioso, il loro peso sulle sue libertĂ  e sulla sua fiducia nei miei confronti.

Anche se a distanza di mesi l’uno dall’altro, i momenti conflittuali erano legati tra loro da un crescendo di violenze verbali e di atteggiamenti colpevolizzanti, era come se dentro me i vecchi scontri non fossero mai stati realmente risolti, e il loro superamento fosse stato piuttosto una mia “gentile concessione”.

L’emergere di un nuovo motivo di conflitto, dunque, inconsciamente, rappresentava per me una sorta di “tradimento”, so bene che è un discorso totalmente illogico, eppure, stranamente, all’epoca aveva una sua precisa logica, tutto ciò non faceva che inasprire e aumentare la portata dei miei gesti sbagliati in quelle occasioni.

Se nel mio caso, la gravità di queste parole e gesti oppressivi, aumentava in modo costante d’intensità ad ogni nuovo scontro, era invece molto diversa la questione dalla “sua” prospettiva.

Scrutando con attenzione il passato e riflettendo a lungo sul suo modo di reagire, mi sono reso conto di come il suo atteggiamento fosse cambiato nel corso del tempo.

Si tratta di una vera e propria parabola, nella quale si parte da un minimo, identificabile con il primo scontro, per arrivare a una fase ascendente, nella quale le sue poche resistenze assecondavano sempre più il fantasma oppressivo che emergeva nella conflittualità, fino ad arrivare a un picco massimo, superato il quale, lei ha iniziato progressivamente a restare probabilmente talmente delusa e ferita, da voler o dover riprendere in mano un tipo di risposta sempre meno assertiva, dando il là a una fase discendente, culminata con un nuovo minimo, questa volta di chiusura (cioè la fine della nostra relazione).

Ci tengo a precisare come, aldilà di questi precisi limitati scontri (al massimo un paio l’anno), fossimo una coppia poco litigiosa, aperta al dialogo, totalmente paritaria, in ogni aspetto della nostra relazione. Forse, proprio per questo motivo, l’emergere di determinati atteggiamenti da parte mia, in un primo momento sottovalutati, diventeranno, in un secondo momento, motivo di enorme delusione e mortificazione da parte sua, perché apparivano certamente illogici e del tutto inaspettati poiché circoscritti e improvvisi.

Dopo l’ultimo forte scontro, decide di troncare, e, non è stato più possibile tornare indietro, in quanto ha fatto in modo d’esser supportata, in questa sua scelta, dalle persone a lei più care e vicine, che han fatto scudo intorno a lei. Una scelta lungimirante e che io condivido pienamente, so bene che per lei è stato difficilissimo fare questo passo, quindi ben venga la cementificazione di questa decisione attraverso l’aiuto di altr@, perché quando ci sono di mezzo i sentimenti è spesso difficile restare coerenti con le proprie scelte, scelte però che non devono essere modificate quando sono state prese in nome dell’auto-determinazione e dell’amor proprio, appunto come, intelligentemente, ha fatto lei.

Dal mio punto di vista, dunque, cosa c’entra tutto ciò con la pratica del femminismo? Perché devo essere grato per l’esistenza del femminismo?

In primo luogo, molto semplicemente, posso supporre che in un altro contesto storico e sociale, lei avrebbe avuto più remore a separarsi ed io non avrei imparato nulla dai miei errori. Oggi, per molti aspetti, sono una persona diversa, non mi piaccio in tutte le mie caratteristiche, però posso affermare di aver fatto dei passi importanti sul plasmare il mio carattere, per merito suo, merito del vuoto che ha lasciato, merito della sua possibilità di auto-determinazione.

Allontanandomi dalla sua vita ha fatto bene a se stessa, ma ha fatto del bene anche a me, il suo è stato un gesto atto a tagliare il peso della sovra-determinazione che inconsapevolmente esercitavo sulla sua vita, ma di riflesso è stato anche un gesto altruista, in quanto mi ha dato l’opportunità di riflettere spontaneamente, di capire, di mettermi in discussione, di lavorare su me stesso, di “cambiare”.

Quando ho iniziato a comprendere i miei errori, per tanto tempo il passato è stato quasi un’ombra dentro me, un senso di colpa che è stato estremamente utile, perchĂ© mi ha spronato a riflettere e intraprendere una serie di percorsi che oggi mi hanno reso molto diverso.

Mi ha regalato una lezione di vita e per questo le sarò sempre grato, sarò sempre in debito.

Col passare del tempo, in modo graduale, sono riuscito a cambiare prospettiva, ho imparato a vivere le relazioni umane in modo diverso, ho ragionato tantissimo sui miei sbagli e ho fatto dell’opposto di quei gesti un ideale di vita.

Un cambiamento che non è avvenuto nel giro di qualche mese, ma un percorso piuttosto lungo.

In principio, quando ho iniziato a guardarmi allo specchio con la consapevolezza che quella persona riflessa, era stata l’artefice di un disastro, portato avanti nel corso del tempo e incapace di riuscire a invertire la rotta in tempo utile (lei ci aveva provato, negli ultimi due litigi, a farmi comprendere la gravità dei miei gesti e il senso di oppressione che avvertiva), ho iniziato a sentire dentro me un vuoto incolmabile, non riuscivo a dare un senso logico ai miei comportamenti passati e non riuscivo a capacitarmi di come avessi potuto provocare tanta sofferenza e far finire in questo modo un legame tanto importante, così intenso, con una persona così meritevole di rispetto e di sentimenti profondi.

Questo vuoto, incolmabile, non era prodotto dall’esser tornato single, era dato, invece, da un insieme di considerazioni: l’averla fatta soffrire, aver perso la SUA fiducia, aver perso il SUO rispetto, aver perso l’IRRECUPERABILE possibilità di esser parte della SUA vita, e, soprattutto, aver perso tutto ciò, in questa maniera.

Un anno prima rispetto a questo “germoglio” di “presa di coscienza”, era capitato che io e lei, di comune accordo, decidessimo di incontrarci (dunque a qualche mese dalla fine della relazione), per salutarci in maniera meno brusca e più consona a ciò che il nostro legame aveva reciprocamente significato.

Successivamente a questo addio, io la contattai (in punta di piedi) in un paio di occasioni, a qualche mese di distanza, per provare a esser amici, ma avvertivo nel suo modo di rispondere una volontà a non procedere, dunque rispettai questa sua volontà. In entrambi i casi, non ero ancora arrivato alla fine del periodo di “riflessione”, tantomeno ero approdato a quello di “auto-critica”.

E’ proprio a questo punto che inizia ad aprirsi dentro me una voragine, profondissima, non riuscivo a capacitarmi di aver perso per sempre la possibilità di condividere parti della mia esistenza, con una persona tanto speciale.

E’ stato nel momento dell’elaborazione di questo enorme lutto, che ho sentito la necessità, reale, concreta, pratica, di capire veramente dove avessi sbagliato, perché avessi sbagliato, cosa fare per evitare di ripetere in futuro questi errori.

Un passaggio molto importante, nel comprendere realmente i miei sbagli, è stato quello di arrivare a capire che il mio focus non doveva porsi sulle mie sbagliate azioni e reazioni, quanto più, sulla logica e sul tipo di pensiero che ne stavano alla base. Se volevo davvero cambiare, dovevo cambiare il mio modo di ragionare, dovevo cambiare il paradigma, dovevo intervenire sulle regole che stanno alla base del mio relazionarmi con l’altra persona.

Da qui, una necessità quasi esistenziale di trovare un paradigma “altro”.

Inutile dire che trovai questo paradigma nelle  filosofie femministe.

Iniziai a informarmi, feci diverse ricerche, riuscivo finalmente a dare un nome a determinate pratiche come il “sessismo” e il “machismo”, mi avvicinai per la prima volta a termini come “patriarcato”, e, cosa ancora più importante, potevo scoprire un punto di vista critico (in alcuni casi già inconsciamente condiviso, in altri casi del tutto nuovo) nei confronti dei modelli ancora oggi “dominanti” nella nostra società.

Tutto questo è stato possibile solo grazie al lavoro svolto da tant@ attivist@, dai blog femministi presenti in rete e sui social, avevo l’opportunità di aprire finestre sconosciute su nuove prospettive.

Il senso di colpa e la voragine legati al mio passato, erano divenuti motore della mia curiositĂ , della mia fame di sapere, volevo cambiare, e, finalmente, avevo gli strumenti adatti a rimettermi in discussione.

L’adozione del nuovo paradigma e l’acquisizione di nuove pratiche sono stati graduali, man mano che la consapevolezza aumentava capivo che questa voragine era incolmabile e che, se volevo stare meglio, dovevo fare la mia parte per permettere ad altr@ di aprire gli occhi e osservare le possibilità di cambiamento che potevano offrire i punti di vista e le pratiche proposti dai femminismi.

Grazie alla segnalazione di uno dei piĂą famosi blog italiani sulle questioni di genere, partecipai (in un’altra cittĂ ) ad un’azione di disturbo nei confronti dei no-choice, senza saperlo stavo svolgendo la mia prima azione politica.

Questa nuova esperienza, accese in me la voglia di dare un contributo “attivo”, nel giro di qualche mese mi trovai a far parte di un collettivo militante nella mia città, e, nel bene e nel male, a fare nuove esperienze, conoscere nuovi punti di vista, dare un mio contributo pratico alla causa femminista.

Quando partecipai, per la prima volta nella mia vita, da militante/attivista, all’ideazione – preparazione – svolgimento, insieme ad altr@, di una vera azione politica, appena conclusosi il tutto (dopo un’ideazione e preparazione di circa due settimane e uno svolgimento di un’intera giornata), alle 3 del mattino, nel centro della cittĂ , mi sentivo in pace con me stesso e il mio pensiero non faceva che volare verso “lei”.

In qualche maniera sentivo che quella voragine, ancora molto profonda, si stava lentamente colmando, sentivo che ero sulla strada giusta, notai che quando mi capitava di ripensare a lei, non mi soffermavo tanto sul ricordo dei bei momenti passati insieme, più che altro mi soffermavo sulla sua FORZA, sulla sua DETERMINAZIONE, su quanto l’ammiravo (e l’ammiro) per avermi reso chi sono ora.

Sapevo con piena certezza che non sarei stato mai più con nessun@ la persona che l’aveva oppressa e ferita, quella persona non esisteva più, ed era anche merito suo.

Tornai a casa, e, posando il mio sguardo sulla famosa immagine della bambina della pubblicità Lego degli anni ’80 (che usai durante l’azione politica come esempio di anti-sessismo), scoppiai in un pianto liberatorio che durò per qualche ora, ero triste, perché per arrivare a capire tante cose, avevo dovuto vivere la distruzione di una relazione irripetibile, conseguenza di miei comportamenti che avevano irrimediabilmente ferito l’altr@, perdendol@ per sempre; In parte, ero felice, perché avevo preso coscienza dell’essere sulla strada giusta verso il cambiamento, per fortuna quanto di negativo era accaduto, era di fatto all’origine di una svolta positiva.

Le tante persone che successivamente ho incontrato e con le quali mi sono confrontato, scontrato, dalle quali ho imparato, con le quali ho collaborato, alle quali mi sono avvicinato o allontanato, i testi, i siti, i blog di informazione, tutt@ orbitanti nell’universo dei femminismi; mi han permesso di aprire i miei orizzonti, di rifiutare (nelle forme che ritengo a me più adatte) modelli normativi, di vedere e comprendere le intersezioni presenti a più livelli, di avvicinarmi a temi e lotte per me prima sconosciuti, di amare la complessità, di posizionarmi esattamente dove voglio e con consapevolezza all’interno dei femminismi e di sviluppare un senso critico dentro e fuori di essi.

E’ proprio per questo, che ancora oggi, c’è “estremo bisogno” del femminismo. Sono sicuro che lì fuori ci sono tanti uomini disposti a imparare dai propri errori, tanti uomini che sentono il bisogno di trovare un nuovo paradigma, nelle relazioni, nella vita.

I femminismi possono fornire ad ognuno di essi e a chiunque altro, gli strumenti per vivere la reciprocità sotto nuove prospettive, abbattendo quelle pratiche dannose che troppo spesso sembrano essere parte dell’unico modello attuabile, ma che, invece, unico non è.

In tutto ciò, hanno grande responsabilità attiviste e attivisti, dare accesso a nuove prospettive, senza escludere nessun@.

Il femminismo “deve essere inclusivo” verso chi è disposto a mettersi in discussione, solo così è possibile fornire la prospettiva di paradigmi “altri”, plurali, comuni e condivisi, che magari diventeranno per molt@ pratica di vita, e perché no, anche pratica politica.

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