Gabbie

Gabbie

di Michela Angelini

 

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Mi chiamo Michela Angelini e sono una donna transgender, pansessuale, antispecista. Queste poche parole bastano a definirmi agli occhi della società. Queste poche parole formano quella piccola gabbia di diversità in cui sono rinchiusa per tranquillizzare chi ha bisogno di sapermi relegata dietro un confine di sbarre che mi tiene lontana, distinta, identificabile da chi mi prende in considerazione solo guardandomi dall’alto al basso. Un confine che vorrebbe impedirmi di contaminare con le mie diversità la società bene che mi circonda.

La mia marca auricolare1 parla chiaro: sono una persona nata maschio e quando nasci maschio l’unica espressione sociale concessa è quella di comportarsi da “uomo”. Io ho rifiutato il mio destino sociale, ho deluso le aspettative di quella struttura fissa e rigida che prevede la netta divisione di ruoli e destini per uomini – maschi – stalloni e donne – femmine – fattrici.

Ho aperto le gabbie e sono uscita fuori. Ho, secondo loro, intrapreso la transizione, il viaggio, che mi porterà dalla prima alla seconda gabbia. Le regole sono chiare. Serve per prima cosa un certificato, un documento di trasporto firmato da un esperto di salute mentale che, solo dopo aver verificato l’impossibilità di vivere in quelle particolari condizioni, che noi chiamiamo “uomo”, autorizza la partenza. L’autista che si fa carico del nostro trasporto è un endocrinologo, autorizzato a somministrare ormoni femminilizzanti che, di mese in mese e di anno in anno, cambieranno le nostre fattezze, permettendo agli altri di vederci finalmente per quello che siamo: donne. Da questo momento ci chiamano trans, etichetta associata al male di vivere, all’emarginazione, all’idea di una scelta perversa, al non essere all’altezza dei compiti che dovremmo svolgere. Trans, cioè oltre.

Transessuale, cioè oltre il sesso, perché l’aspetto esteriore, a questo punto, non corrisponde più al sesso genitale e questo non va bene se vuoi entrare a tutti gli effetti in quel gruppo chiamato “donne”, gruppo che costantemente viene erroneamente fatto coincidere con quello chiamato “femmine”. Il documento di nascita parla chiaro, c’è stampata su una “EMME” e per poter cambiare questa in una “EFFE” c’è un pegno da pagare, mutilare una parte del proprio corpo, quella parte che potrebbe essere procreativa. Serve ricorrere ad un giudice, perché amputare quel che è un organo sano necessita di autorizzazione e, dopo l’intervento di castrazione chirurgica o di riconversione chirurgica del sesso (se viene anche ricostruito un simil apparato femminile esterno), è nuovamente il giudice che deve certificare l’effettivo cambiamento e che così facendo può concedere i nuovi documenti. Solo a questo punto siamo riabilitate, appartenenti al genere femminile dalla testa alla neo-vagina, nessuno sospetterà più del nostro viaggio. Donne Ex trans, come molte si definiscono. Ora, finalmente, possiamo essere felicemente vittime di sessismo, accettare una paga inferiore a quella che avremmo avuto restando uomini, possiamo sposarci con l’abito bianco e parlare di gossip senza che nessuno abbia niente da ridire.

Ma a me questo non interessa. Il corpo non è altro che uno dei tanti mezzi di comunicazione che abbiamo a disposizione e che, nel mio caso, mandava agli altri messaggi disfasici, distorti. La mia espressione di genere era totalmente diversa da quella che avrei voluto comunicare. Ho imparato a togliere i corpi dai loro piedistalli, quei corpi oggi considerati status symbol, oggetti da modellare per scalare la piramide sociale, sono per me solo involucri parlanti. Anche per questo mi dichiaro pansessuale, potenzialmente attratta da chiunque, perché non posso accettare sia un corpo a far da spartiacque tra chi mi può interessare e chi no.

Per questo rifiuto la destinazione che il sistema mi propone, non può essere l’unica: la transizione non è un viaggio anatomico da “maschio” a “femmina” ma un viaggio sociale, da “uomo” a “me stessa”. Vivo come donna da ormai tre anni e non posso accettare che il riconoscimento sociale del mio genere, quello che è ovvio finché non mostro un documento, debba passare per il giudizio di un giudice. Io mi autodetermino perché, come qualsiasi vivente, esisto e sono soggetto, non oggetto.

Sono soggetto, quindi punto di vista e posso permettermi di sedermi e guardare oltre le sbarre che ho di fronte. Osservo e mi accorgo di non essere affatto sola. Con me ci sono altri uomini e donne: migranti, gay, lesbiche, genitori omosessuali, disabili, rom, persone gender non conforming, intersessuali, asessuali, profughi, poliamore ed animali non umani. Animali scappati da recinti e convenzioni, animali liberati da barriere architettoniche varie, animali nati liberi, nomadi. Animali, umani e non umani, che continuano imperterriti a vivere negli stessi luoghi occupati dall’uomo e che, nonostante questo cerchi di sterminarli, resistono, di generazione in generazione.

Vedo l’altra mia transizione, quella vera. Nasco oppressore ma, per seguire la mia natura, sono diventata oppressa. Ho perso brandelli di potere ma ora, da persona libera, capisco che le sbarre non rinchiudono me e vedo finalmente le vere gabbie: sessismo, machismo, omotranfobia, razzismo, specismo, intolleranza e pregiudizio. Ho cambiato paradigma, vedo il mondo con occhi diversi, per questo siamo problemi, antisociali, da evitare ed insultare, imbizzarriti, improduttivi, a fine carriera, da eliminare.

Pochi minuti di ragionamenti, che però ci hanno messo anni per formarsi e raggiungere il livello cosciente. Anni in cui la mia vita è cambiata totalmente. Lavoravo come medico veterinario in una clinica per cavalli. Ho studiato veterinaria perché volevo curare quegli animali che per me sono sempre stati speciali, amici. Mi chiedevo perché nel corso di studi si sprecasse tanto tempo studiando il controllo delle carni, la produzione del latte, la progettazione e il controllo degli allevamenti, a scapito del tempo dedicato a materie propriamente mediche. Ho cercato di compensare le inevitabili lacune, passando molto del mio tempo libero a curare puledri e vitelli in facoltà. Alcuni di quei vitelli che erano stati regalati alla facoltà perché malati guarivano, per poi tornare in allevamento. Ma credevo fosse normale. Puledri prima e cavalli poi che, guariti, potevano gareggiare sotto una sella o attaccati a un sulky. Curarli mi sembrava mio dovere. Cavalli che, per la loro salute, non avrebbero più dovuto fare agonismo e cavalli che necessitavano di interventi chirurgici salva vita che nessuno voleva pagare. Cavalli per i quali veniva richiesta l’abbattimento perché ormai anziani e cavalli agonizzanti che mi sono stramazzati davanti perché nessuno mi autorizzava all’eutanasia.

Ho cominciato a chiedermi come tutto questo potesse essere ritenuto normale. Poi mi è stato chiaro perché il corso di studi fosse così strutturato: quello che un medico veterinario deve fare è assicurare la salubrità degli alimenti che l’uomo mangerà e assecondare i desideri di quell’uomo che possiede l’animale che chiama a curare. Il veterinario è a servizio dell’uomo, non dell’animale. L’animale, parola che vorrebbe significare essere dotato di anima, nei fatti è solo un corpo, un insieme di pezzi anatomici tenuti assieme dalla volontà di quell’umano che ne è detentore, proprietario, giudice di vita o di morte. L’animale per lo stato è solo un corpo da produzione, da compagnia o da diporto. Io per lo stato sono solo un corpo, maschio o femmina. I governi hanno più volte usato lo stamping out (sterminio) e il confino di mandrie, di capannoni, di allevamenti e di intere specie animali per proteggere la salute dell’uomo e per preservare la qualità dei cibi di cui esso ha deciso di nutrirsi. I governi hanno più volte usato stamping out e confino per soggiogare transessuali, immigrati, omosessuali, rom e disabili. Io sono solo un animale umano e da pari a pari non posso più accettare di assecondare le richieste di un padrone–proprietario a scapito della salute di un soggetto animale non umano.

In qualche modo, quasi automaticamente, ho trasmutato la mia personale esperienza di umano disumanizzato alla realtà della disanimalizzazione animale. Non avrei mai potuto accettare il mio stare sul confine se non avessi prima letto studi di genere e storie di altre realtà, diverse dalla nostra, ma che comunque prevedono l’esistenza di persone come me. Diverse società di nativi Americani, ad esempio, prevedevano l’esistenza dei “Two Spirit”, persone nate di un sesso ma contenenti le anime di entrambi i generi e che, spesso, proprio per questo dono, avevano ruoli di rilievo all’interno della tribù. Oggi li chiameremmo transgender o gender non conforming. Ho, così, capito ed accettato di non star facendo altro che seguire il mio destino, nonostante gli intralci e le regole umane della società moderna. Allo stesso modo, leggendo e studiando, ho scoperto un ventaglio di più società naturali diverse da quelle che si vedono in cattività, quelle che seguono regole imposte dall’uomo, le uniche che mi avevano abituata a considerare. Ho scoperto, ad esempio, la balla dello scopo procreativo del sesso. Ad oggi non è stata trovata specie animale che non comprenda individui omosessuali e, come se non bastasse, solitamente quelli bisessuali sono in numero maggiore rispetto agli eterosessuali esclusivi. Gli animali fanno sesso per divertimento, vivono in coppie stabili omosessuali che possono anche adottare piccoli, stringono amicizie e sodalizi, costruiscono oggetti e ripari, comunicano e prendono decisioni. Posso nutrirmi di qualcuno che pensa?

Le interconnessioni tra la mia storia e quella dello sfruttamento animale mi hanno aiutata a capire che il sistema di dominio a cui tutti noi umani, più o meno consciamente, compartecipiamo e di cui tutti, consapevoli o meno, siamo schiavi, è lo stesso che opprime con le stesse dinamiche anche gli animali e la terra. Solo accettando di essere parte del problema possiamo scomporlo, contrastarlo e riformulare il sistema in modo che sia più giusto e rispettoso per tutti.

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Note
1- identificativo che si appende all’orecchio dei bovini

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