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Intersessualità, invisibilità e pregiudizio

Rilanciamo l’intervista a Michela Balocchi e Nicole Braida

per Lidia Borghi su Tempi di Fraternità.

Qui la versione PDF

Intersessualità, invisibilità e pregiudizio.

Ne ho parlato con Michela Balocchi e Nicole Braida

di Lidia Borghi

10 Aprile 2017

Chi siete e di che cosa vi occupate?

Michela: Sono ricercatrice Marie Curie con un progetto triennale focalizzato sulla medicalizzazione delle persone con tratti intersex. Come sociologa mi sono occupata di studi di genere per anni, fin dal periodo della mia formazione universitaria a Firenze. Due anni dopo la discussione della mia tesi di dottorato sulla rappresentanza di genere in politica ho avuto la fortuna di ascoltare il breve intervento di una giovane persona intersex a Bologna, e mi si è aperto un mondo che ha cambiato la mia vita, di studiosa e anche personale e che non intendo abbandonare: dopo quell’incontro ho iniziato a informarmi, a studiare e a cercare di parlare con le persone direttamente interessate, ascoltare le loro storie e il loro vissuto.

Sono così diventata attivista per i diritti umani delle persone intersex e, un anno dopo ho aperto, con l’aiuto di Alessandro Comeni, lui stesso da poco entrato a far parte dell’attivismo come persona intersex, il primo punto di accoglienza per ogni tipo di variazione intersex in Italia. Nel 2013 abbiamo fondato, insieme a Nicole Braida e altre persone, il collettivo intersexioni.

Nicole: Sono dottoranda in Sociologia e Metodologia della Ricerca Sociale presso il NASP (Network for the Advancement of Social and Political Studies) tra l’università degli studi di Milano e quella di Torino. Mi interesso di medicalizzazione dell’intersessualità, costruzione sociale della sessualità e relazioni intime non convenzionali. Vivo a Torino, dove mi sono laureata in Sociologia con una tesi sulla gestione sociale e medica delle persone intersex che ha ricevuto il premio “Arianna Buttinelli” dell’associazione AISIA (Associazione Nazionale Sindrome Insensibilità agli Androgeni) nel 2012. Il mio primo contatto con la tematica intersex è stato durante il mio Erasmus a Siviglia, quando seguivo un corso di Antropologia dei generi. Anche per me è stato come scoprire un mondo e, da quel momento, non sono più riuscita a pensare al sesso biologico nel modo in cui mi avevano insegnato. Da lì in poi è iniziato anche il mio percorso da attivista, di cui la fondazione di intersexioni è stato un passo importante.

A che punto stanno le cose, in Italia, in merito all’insieme di ignoranza, pregiudizio e invisibilità riservata alle persone intersessuali?

Nicole: Nel nostro Paese l’intersessualità è ancora molto invisibilizzata: negli ultimi anni è aumentato l’interesse da parte dei media mainstream alla tematica ma, molto spesso, esso non è accompagnato da una corretta informazione e formazione delle/dei giornalist*; si punta al sensazionalismo parlando di “bambini senza sesso” oppure di “terzo sesso”, senza offrire un quadro completo di che cosa sia l’intersessualità nel suo complesso. Dal punto di vista della gestione medica, dalla mia indagine condotta nel 2011 è emerso che non esiste ancora un’uniformità di trattamento e molto è ancora lasciato all’arbitrarietà dell’équipe o della/del singol* specialista, che ha la facoltà di orientare i genitori verso gli interventi che ritiene “necessari”. Sebbene il livello d’intervento sui corpi sia diminuito nel corso dell’ultimo ventennio grazie alle pressioni dell’attivismo internazionale e gli interventi non consensuali e non necessari sui bambini intersex siano stati riconosciuti come mutilazioni genitali anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sappiamo che ancora oggi ci sono specialist* che fanno pressioni sui genitori per intervenire chirurgicamente sui/sulle figl* prima della pubertà e che, in generale, per la maggior parte delle/degli specialist* non si può prescindere da qualche grado di medicalizzazione (per esempio, le terapie ormonali). Un altro indizio dell’invisibilità e del pregiudizio intorno all’intersessualità nel nostro Paese è il fatto che le persone che io ho intervistato preferivano non usare il termine “intersex”, in quanto percepito come fortemente stigmatizzante nella nostra società scegliendo, piuttosto, termini più medicalizzanti come DSD (disordini dello sviluppo sessuale). Parte dell’attivismo internazionale (per esempio l’OII, Organization Intersex International) ha preso, invece, le distanze da questi termini in quanto rientrano ancora nel paradigma della medicalizzazione, che vede l’intersessualità come un “disordine”, qualcosa di patologico che va corretto, anziché come una manifestazione della varietà anatomica esistente.

Michela: Nonostante la classe medica in Italia e all’estero assicuri a più riprese che gli interventi di chirurgia estetica genitale non necessari per motivi di salute non vengono più fatti su bambin* con tratti intersex, sappiamo non essere così: le linee guida mediche prevedono ancora interventi in casi di atipicità genitale, così come indicato dal Consensus Conference del 2006 (nota 0). In Italia lo scorso settembre le cronache riportavano la notizia di una serie di interventi chirurgici effettuati al policlinico universitario Paolo Giaccone di Palermo su un* bambin* di appena due anni e mezzo, san*. L’intervento è stato fatto passare come un caso di eccellenza, come una «risposta di straordinaria efficienza e qualità» della Sanità palermitana quando, invece, stando alle cronache locali, si è trattato di una serie di interventi estremamente invasivi, irreversibili e non necessari per imminenti motivi di salute: ad un* bambin* san* con caratteristiche di sesso non chiaramente riconducibili alle nozioni binarie di femmina e maschio sono state asportate le gonadi con l’utero ed è stato costruito un apparato genitale maschile con lo scopo di allineare l’aspetto dei suoi genitali ai cromosomi maschili, senza attendere che potesse avere una età adatta a dare il proprio consenso informato e decidere per sé. Questi tipi di interventi sono stati dichiarati una forma di tortura e di mutilazione genitale ormai da numerosi organismi internazionali, compresa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (2015), così come la Fundamental Rights Agency (l’Agenzia per i Diritti Fondamentali o FRA) nel 2015, il Consiglio d’Europa (2013). Anche l’ONU si è espressa in merito in più occasioni, l’ultima durante il periodo di consapevolezza intersex (26 ottobre – 8 novembre 2016), e precedentemente nel 2013 nel suo Rapporto Speciale sulla Tortura.

L’Italia è stata anche ammonita dal Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (Committee on the Rights of Persons with Disabilities, CRPD) proprio per le pratiche di mutilazioni genitali intersex, denunciate come violazione dell’art. 17 CRPD sulla “Protezione dell’integrità della persona” (qui il comunicato stampa congiunto di intersexioni e Certi Diritti).

Che gli interventi di chirurgia estetica femminilizzante o maschilizzante vengano interrotti è la richiesta che da ormai vent’anni fanno le organizzazioni di persone intersex. Mi domando quanti soggetti ancora debbano subire interventi invasivi, irreversibili e non necessari, per lo più dannosi per la salute fisica e mentale, prima che la classe medica italiana tutta ascolti queste voci e recepisca le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (nota 1).

Le mutilazioni genitali hanno finito per coinvolgere le persone intersessuali e le persone transgender, il che ha trasmesso all’opinione pubblica molte informazioni errate che ingenerano confusione. Che cosa sono e perché rappresentano una tortura legalizzata e quale differenza c’è fra intersex e transgender?

Nicole: Partiamo dalla differenza fra intersex e transgender. Le persone intersex presentano caratteristiche biologiche che non possono essere ascritte a uno solo dei sessi socialmente riconosciuti nella nostra società; queste caratteristiche possono presentarsi a livello cromosomico, ormonale e/o fenotipico (genitali interni, esterni e/o caratteristiche sessuali secondarie). Le persone transgender, invece, non si riconoscono totalmente nel sesso anagrafico che è stato loro assegnato alla nascita e alcune di loro (anche se non tutte!) desiderano adeguare le loro caratteristiche anatomiche alla propria identità di genere, sottoponendosi a terapie ormonali e/o interventi chirurgici. Dal punto di vista degli interventi chirurgici, pertanto, le istanze dell’attivismo intersex e dell’attivismo transgender sono molto differenti (potremmo dire quasi opposte): l’attivismo intersex chiede l’arresto degli interventi chirurgici precoci su pazienti che, a causa della loro età, non possono dare il consenso all’intervento; l’attivismo transgender, invece, pur nelle sue differenze e complessità interne, chiede l’accesso il più possibile rapido dal punto di vista burocratico al cambiamento del nome anagrafico e agli interventi medico-chirurgici, per chi lo desidera.

Dunque, mentre gli interventi sui corpi intersex in età precoce si configurano come vere e proprie mutilazioni genitali perché effettuati su persone che non possono ancora autodeterminarsi e possono avere gravi ripercussioni fisiche e psicologiche anche sulla loro vita affettiva e sessuale, gli interventi sulle persone transgender, se richiesti e voluti dalle persone stesse, sono invece legittimi e vanno garantiti. Le analogie tra i due percorsi stanno nel fatto che entrambi i gruppi sono vittima delle politiche di controllo sui corpi e dei processi di medicalizzazione che pongono limiti e ostacoli allo scavalcamento dei confini tra i sessi e i generi.

Michela: Come ha ben spiegato Nicole, le richieste delle persone intersex e delle persone trans possono apparire, e per molti aspetti sono, opposte. Quello che le accomuna è la richiesta del rispetto del diritto all’autodeterminazione che, nel caso delle persone transgender, trans*, gender non conforming, si declina nella garanzia di poter aver accesso ai trattamenti cosmetici e chirurgici desiderati, alle cure necessarie, così come di poter accedere al cambio di sesso anagrafico senza doversi sottoporre a sterilizzazione e ad altri interventi chirurgici se non richiesti, la possibilità di seguire un percorso burocratico snello, non stigmatizzante e patologizzante oltre a un percorso di psicoterapia solo se richiesto e non come unico modo per ottenere il riconoscimento della propria identità. Nel caso delle persone intersex la richiesta è quella del rispetto dell’integrità del proprio corpo così come è alla nascita, senza che venga modificato con trattamenti chirurgici e farmacologici per conformarlo ad un ideale di genere binario per estetica e presunta futura funzionalità, sulla base di decisioni altrui (siano dei medici o dei genitori/tutori).

Media e linguaggio LGBTQI: quanto c’è di voluto e quanto di ignoranza allo stato puro?

Nicole: Con intersexioni abbiamo già scritto alcuni articoli proprio per fare chiarezza sulla tematica intersex, in seguito all’uscita di notizie passate dalla stampa con toni superficiali e fuorvianti (nota 2). Se da parte delle testate più vicine alle destre o al mondo cattolico (occupate nella crociata anti gender) può esserci un intento mistificatorio la sensazione è che, in generale, ci sia anche molta ignoranza sull’argomento. Credo che, almeno in parte, essa possa essere attribuita alle condizioni del giornalismo contemporaneo, che molto gioca sullo scoop e sul sensazionalismo con poco tempo per approfondire. Il pressappochismo però non può essere giustificato, quando si trattano argomenti complessi che coinvolgono le vite di persone che già subiscono un forte stigma sociale.

Michela: la mancanza di conoscenza, il pressappochismo e il sensazionalismo di cui parla Nicole si riscontrano talora anche nella stampa estera: stigma, linguaggio inappropriato, disinformazione, schiacciamento della tematica intersex su altre questioni legate principalmente all’identità di genere e/o all’orientamento sessuale, così come l’accoglimento acritico della versione medicalizzante e patologizzante fornita dalla classe medica mainstream, sono un problema diffuso non solo in Italia (nota 3).

Soltanto laddove il/la giornalist* ha la serietà di coinvolgere nella sua inchiesta o semplice articolo che sia le persone direttamente interessate e le/gli attivist* per i diritti umani intersex, i risultati sono soddisfacenti, dignitosi o almeno accettabili.

Intersessualità e invisibilità: quale ruolo gioca la vergogna vissuta in famiglia e quale lo stigma sociale?

Nicole: Allo stato attuale è presente un circolo vizioso per cui lo stigma sociale subìto dalle persone intersex alimenta la percezione di emergenza sociale nelle famiglie e negli/nelle operatori/trici sanitari/e e questa percezione induce a nascondere e cercare di normalizzare i corpi delle persone intersex. Per questo motivo l’intersessualità continua a essere invisibile e questa invisibilità, a sua volta, nutre lo stigma. L’unica via che vedo per uscire da questo circolo vizioso è lavorare per il cambiamento culturale, verso una sempre maggiore accettazione delle differenze in generale e di quelle intra e intersessuali nello specifico. Il punto di partenza può essere abituarsi a pensare il sesso non come un sistema binario che comprende solo due opzioni, ma come un continuum che prevede infinite sfumature possibili tra i due estremi femminile/maschile. Tuttavia questo cambiamento culturale può avere tempi lunghi, mentre è necessario che le mutilazioni genitali si arrestino da subito, in quanto contrarie al diritto all’autodeterminazione e all’integrità fisica.

Michela: Silence, secrecy and shame ovvero silenzio, segretezza e senso di vergogna sono le cosiddette tre esse con cui nel mondo dell’attivismo intersex internazionale viene indicato l’intreccio di cause ed effetti del vivere in un ambiente in cui lo stigma sociale, la segretezza imposta da parte dei medici e della famiglia e il senso di vergogna che ne deriva giocano un ruolo determinante nella crescita e formazione di bambine, bambini, adolescenti, ma anche adulti con variazioni intersex. Il modello medico del nascondimento, portato avanti dallo psicologo John Money negli anni Cinquanta del secolo scorso e non ancora realmente abbandonato, produce isolamento e la sensazione di essere le uniche persone al mondo a dover affrontare percorsi chirurgici e/o farmacologici di cui non si sa niente e di cui viene detto poco. La mancanza di conoscenza stessa crea isolamento, così come la percezione di essere sbagliat* e produce grande sofferenza. Come dice Nicole, in tale contesto si viene a creare un circolo vizioso che va interrotto ed è quello che da anni cerchiamo di fare, come singole e come intersexioni, informando, facendo crescere consapevolezza ovunque, cercando di aiutare chi ci contatta come possiamo e, in particolar modo, facendo rete, mettendo le persone in relazione le une con le altre e creando condivisione. Nello stesso tempo è necessario cercare di incidere sulla legislazione e sulle linee guida mediche in modo tale da interrompere una volta per tutte le pratiche di interventi non necessari per imminenti motivi di salute, trattamenti chirurgici e farmacologici irreversibili che causano gravi sofferenze fisiche e mentali e che vìolano i diritti umani di integrità del corpo e autodeterminazione.

Note

0. Si tratta di una conferenza organizzata da due società di medicina a Chicago con l’obiettivo di trovare un accordo su un documento riguardante il trattamento medico delle variazioni intersex (NdR)

1. Basta interventi chirurgici e terapie non necessarie su bambini/e intersex, 2 Ottobre 2016.

Certi Diritti e intersexioni: basta interventi e terapie non necessarie su bambine/i. Depositata Interrogazione in Senato, 14 Ottobre 2016.

2. L’articolo scritto da Michela Balocchi con Alba Maria Tonarti: Mutilazioni sociali bisturi sempre più in voga pe omologare le atipicità, e quello scritto da Nicole Braida e Michela Balocchi: Il caso di Gela: le variazioni intersessuali tra sensazionalismo dei media e interventismo medico 

3. A questo proposito suggerisco la lettura dell’artico di Morgan Carpenter, co-chair di OII Australia: Body shaming is an intersex issue, 19 Agosto 2016.

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